2021-07-28 21:22:55
«Tutta la letteratura è geroglifica» Il Post
22.07.2021
#DiVisteERiviste
E all’improvviso, a volte, vediamo
1.
Camminiamo lungo il sentiero che si snoda tra i sassi a strapiombo sul paesaggio. Dall’alto li vediamo, nuotano, nudi, in pozze d’acqua traslucida. Gridiamo, come è bello! queste trasparenze, questi colori, l’azzurro, il verde intenso, lo stridore delle cicale che si innalza intorno, le grandi masse che si dispongono, l’orizzonte e i dettagli, è bellissimo!
Venite! gridano da sotto mentre nuotano, venite! I loro volti ridono verso di noi, i loro corpi deformati dall’acqua si agitano nel prisma luccicante dei riflessi, venite!
Ma noi non vogliamo andare, pensiamo che sia ancora più bello dall’alto, preferiamo guardarli da lontano, loro, di sotto, catturati nel paesaggio, a mollo nelle pozze d’acqua profonda, loro così piccoli, piccolissimi, immersi nell’elemento, mentre si occupano quasi solo del proprio corpo, del proprio piacere (e tuttavia non c’è niente di certo, pensiamo noi), corpi in miniatura, segni scagliati sul fondale immenso della natura, e questa certezza improvvisa ci giustifica, rende invidiabile la nostra posizione. Vogliamo vedere dall’alto. Vogliamo capire. Non siamo dentro, non siamo in quell’effusione, non siamo né materia né godimento, guardiamo, li vediamo dall’alto, vediamo tutto, loro e l’immensità del resto, e pensiamo di sapere ciò che loro non sanno.
Venite, venite! gridano ancora, chiamando da lontano, un braccio a volte alzato verso di noi, mentre continuano a nuotare nella pozza d’acqua, presagendo adesso la noia, il freddo che presto arriverà, Venite! gridano, i volti ancora protesi verso di noi che siamo già lontani e continuiamo a salire nel vapore delle alture, vacillando per la fatica, sudando sotto il sole.
2.
Il panorama o l’immersione? Al mattino, appena apriamo gli occhi, il peso della contraddizione ci sfianca: tutto o il dettaglio? l’impegno o l’accoglienza? Andare alla conquista, rispondere alla chiamata – nemmeno rispondere: essere la chiamata stessa, essere la vitalità stessa, conquistare il mondo, rispondere – o meglio acconsentire a ciò che sta accadendo, accogliere l’indecifrabile massa di questa convenzione onnipotente che chiamiamo “il mondo”? Esserne fuori o starne dentro? Scegliere il legame o preferire la separazione? Si passa dall’uno all’altro, titubanti tra opinione o preghiera, storia o tempo, di volta in volta eroi dell’impegno o maestri del ritiro, insoddisfatti dell’uno e dell’altro, esitanti, indifesi, mai felici. Il mondo. La parola intimidisce. Troppo grande. Viene mobilitato per giustificare un ordine, il potere universale di una strada a senso unico. Viene aggredito per denunciare la nostra impotenza. Di fronte al mondo, impenetrabile e pietrificante, la lista delle ingiunzioni e delle buone intenzioni si protrae: non bisogna appropriarsi di nulla, ma senza rinchiudersi in se stessi; essere potenti senza potere; efficienti e virtuosi; impegnati senza compassione; essere sconfitti senza malinconia, lasciare spazio alla memoria, all’impossibile, all’incredulità. Facile a dirsi.
Non leggo il mondo, lo faccio ruzzolare dalla cima alla pozza, poi risalgo e ricado, ne vengo inghiottita, presa alla gola dalla sua violenza, senza fiato per la sua bellezza, impegnata in un corpo a corpo burrascoso, spesso doloroso, il più delle volte logistico, talvolta estatico, persa nei compromessi affrettati del sentimento e dell’idea. Come alcuni, come tutti, mi faccio convincere di volere solo l’incertezza, l’imprevisto, il disordine, un ideale di disordine.
Ma temo di perdermi tutto, impantanata in quella specie di calderone di eventi, di crisi perpetua che ti lascia esangue per l’incomprensione.
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