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Gli ultimi messaggi 66

2021-09-17 18:57:24 USA-CINA: PATTI RIVALI

Occhio per occhio
Giovedì la Cina ha presentato richiesta formale per entrare nel CPTPP. Sembra quasi uno scioglilingua, invece si tratta della versione senza Stati Uniti del TPP, il patto commerciale transpacifico.
Voluto dagli Usa di Obama per contenere l’espansionismo cinese, stracciato dagli Usa di Trump, portato avanti dagli “altri” senza Washington, è stato scelto quale perfetto strumento di ritorsione cinese all’AUKUS, il patto a tre tra Usa, Uk e Australia del giorno prima. Così Pechino segnala: “se Washington si sfila, arriviamo noi”.

Trolling diplomatico?
Se la richiesta di ingresso nel CPTPP risponde all’AUKUS è anche perché Pechino sa che il patto tripartito per fornire sottomarini nucleari all’Australia è una mossa per controbilanciare la sempre più ingombrante presenza cinese nel Sudest asiatico.
Resta da vedere quanto ci sia di sincero nella domanda di adesione cinese. La Cina sa che ciascuno degli 11 membri attuali potrebbe porre il veto, e uno di questi è proprio l’Australia: difficile immaginare che, dopo aver firmato una “triplice alleanza” in chiave anticinese, Canberra possa acconsentire all’ingresso di Pechino.
Di certo però la presenza cinese fa gola a molti governi, visto il volume commerciale che muove e la prospettiva di cancellare il 90% dei dazi. La stessa Cina, peraltro, solo a novembre 2020 è entrata in un diverso patto commerciale con altri 14 paesi asiatici, il RCEP, che già include grandi alleati degli USA come l’Australia, il Giappone e la Corea del Sud. Chi vivrà, vedrà.

Fuoco amico (again)
Quel che è certo è che, una volta ancora, la Casa Bianca ha fatto uno sgarro agli alleati. Dopo il ritiro dall’Afghanistan, che gli Usa hanno gestito in maniera quasi unilaterale, anche questa volta Biden si muove a sorpresa. E, da Bruxelles, si è levata una voce (per una volta!) unanime: “avremmo voluto saperlo prima”.
Tra gli alleati, i più infuriati sono i francesi: l’accordo fa saltare il “contratto del secolo” con l’Australia da 31 miliardi di euro. L’Eliseo definisce la mossa “unilaterale, brutale e imprevedibile”. Rincarando la dose: “Sembra quasi di vedere all’opera Trump”.
Se davvero è questo il “ritorno al multilateralismo” promesso da Biden, l’Europa non può che farsi qualche domanda.

Nell’ISPI Daily Focus di questa sera: Elezioni in Russia, nessuna opposizione a Putin. Su ispionline.it
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2021-09-15 19:19:10
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2021-09-15 19:19:05 USA: PROBLEMA NO-VAX

Pochi vaccini, tanti morti
Da primi a ultimi. Dopo aver rappresentato per mesi il modello globale di riferimento per inoculazione di vaccini, gli Stati Uniti ora arrancano, con il tasso di copertura vaccinale completa più basso tra i paesi G7: 53% contro, ad esempio, il 64% dell’Italia. Non solo: anche paesi molto più poveri, come Cambogia o Mongolia, hanno vaccinato una quota maggiore di persone.
Se la campagna vaccinale negli Stati Uniti rallenta, lo stesso non si può dire della pandemia: 150mila la media dei nuovi casi giornalieri, 1.500 i decessi. Ad agosto uno stato americano su cinque ha stabilito il proprio record di ricoveri Covid da inizio emergenza. Ma, nonostante questo, sul vaccino gli americani restano diffidenti.

Scetticismo made in USA
Più di un americano su quattro (27%) afferma di non avere intenzione di farsi vaccinare o di non essere sicuro di farlo: circa il doppio rispetto a francesi o italiani. Dato in calo rispetto al 37% di marzo, ma tra le grandi economie mondiali solo i russi sono meno entusiasti del vaccino.
Pesa la scarsità di protezioni sociali, compreso il mancato congedo pagato per malattia: due lavoratori americani su dieci non si vaccinano per evitare la possibile breve convalescenza collegata all’iniezione. Ma pesano anche le divisioni politiche, con gli stati “repubblicani” molto meno vaccinati e schierati contro la proposta di Biden di imporre l’obbligo vaccinale per dipendenti federali e grandi aziende.

L’Europa s’è desta?
Sull’altra sponda dell’Atlantico, sembrano ormai lontane anni luce le polemiche sulla campagna vaccinale, tra errori nei contratti di fornitura, tira e molla con AstraZeneca e ritardi nelle consegne. Solo a marzo il Financial Times scriveva che Bruxelles aveva «fallito la sfida vaccinale». A distanza di sei mesi, un articolo invecchiato male.
L’obiettivo, posto dalla stessa Commissione europea, di vaccinare il 70% della popolazione adulta “entro fine estate” è stato centrato già il 31 agosto, anche grazie all’introduzione di obblighi collegati al green pass. E così oggi Ursula von der Leyen, nel suo “Stato dell’Unione” che fa il verso a quello americano, ha potuto festeggiare. Adesso non resta, e non è poco, che tenere il passo.

Nell’ISPI Daily Focus di questa sera: Europa, von der Leyen e lo Stato dell’Unione. Su ispionline.it
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2021-09-14 19:11:13
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2021-09-14 19:11:07 AFGHANISTAN: FAME O DIRITTI

ONU vs talebani
1,2 miliardi di dollari in aiuti per l’Afghanistan: questa è la cifra concordata dai rappresentanti di circa 40 paesi donatori, riunitisi ieri a Ginevra. Si tratta del doppio di quanto l'ONU aveva indicato come somma necessaria entro fine anno per scongiurare una carestia che avrebbe colpito circa un terzo della popolazione afghana.
Neanche un centesimo passerà però dalle casse del governo talebano: i finanziamenti saranno gestiti direttamente dalle Nazioni Unite. Tuttavia, il regime può sempre ostacolare e fermare l’azione dell'ONU nel paese se non ottiene ciò che vuole. Un vero e proprio dilemma per la comunità internazionale: come evitare una crisi umanitaria senza però dare ai talebani legittimità e risorse.

Bastone e carota
Con la nascita dell’emirato islamico, governi occidentali e istituzioni internazionali hanno sospeso gli aiuti umanitari, che rappresentavano il 40% del PIL afghano (77 i miliardi di dollari ricevuti negli ultimi vent’anni). Da questi fondi dipendeva il sostentamento di circa la metà della popolazione, ora esposta alla povertà estrema anche a causa della grave siccità che ha spazzato via il 40% del raccolto di grano del paese.
Ma l’Occidente non vuole (ancora) sbloccare i 10 miliardi di dollari delle riserve della banca centrale afghana, congelati all’estero (in gran parte negli Usa): uno strumento chiave per fare pressione sui talebani e costringerli a un impegno condizionato. Soldi, in cambio del rispetto dei diritti di base degli afghani. Good luck...

The Terminal
Altra questione chiave riguarda l’ingresso degli aiuti umanitari in Afghanistan (e l’uscita delle persone ancora da evacuare). Turchia e Qatar stanno lavorando per garantire il ripristino completo del traffico aereo nel paese ma, a causa dell’opposizione talebana, non possono assicurare le condizioni base di sicurezza, attualmente precarie come dimostrato dal caotico ritiro di fine agosto.
Ritiro di cui ieri e oggi Blinken ha risposto al Congresso USA: tra prevedibili accuse alla presidenza Trump (“abbiamo ereditato una scadenza, non un piano”) e riferimenti alla Cina (“ci avrebbe voluti distratti lì per un altro decennio”), l’amministrazione Biden è oggi costretta a cercare di ripulire la propria offuscata immagine internazionale. La gestione del dialogo “obbligato” con i talebani sarà il primo banco di prova.

Nell’ISPI Daily Focus di questa sera: Egitto-Israele, pragmatismo al vertice. Su ispionline.it
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2021-09-13 19:27:44
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2021-09-13 19:26:03 NORVEGIA AL VOTO: VERDE (O) PETROLIO

Clima elettorale
Non sempre le elezioni in un paese di 4 milioni di abitanti meritano l’attenzione del mondo. Così sarebbe potuto essere anche per la Norvegia, dove oggi si vota per il rinnovo del Parlamento. Stavolta, però, di motivi ce ne sono almeno due.
In primis perché la politica norvegese ha alcune interessanti analogie con quella tedesca, dove si vota tra poco più di dieci giorni. E poi perché proprio dalla Norvegia, uno dei maggiori esportatori di petrolio del mondo, arrivano segnali di “resistenza” popolare alla transizione verde.

Donne e petrolio
Da stasera, una leader conservatrice che ha governato un paese europeo per anni potrebbe dover lasciare l’incarico. No, non Angela Merkel, pronta all’annunciato “pensionamento” dopo 16 anni al potere. Ma Erna Solberg, premier della Norvegia dal 2013 e leader del Partito conservatore dal 2004, l’anno prima che Merkel diventasse cancelliera. Anche a Oslo, inoltre, le sorti della “donna al comando” sembrano destinate a scontrarsi contro una muraglia “rossa”: i socialisti in Germania, i laburisti in Norvegia.
Le analogie però finiscono qui: la Norvegia è un petro-stato, in cui il settore oil rappresenta il 60% delle esportazioni e foraggia il più grande fondo sovrano al mondo (1.300 miliardi di dollari). E i cittadini lo sanno, tanto che se qualche mese fa in Germania i Verdi erano temporaneamente diventati primo partito, gli omologhi norvegesi (tra i pochi favorevoli allo stop alle trivelle) languono al 4%.

Da Oslo a Bruxelles
Il disinteresse dei norvegesi per la lotta al cambiamento climatico sembra in contrasto con le tendenze del resto del continente. Solo a luglio la Commissione europea ha presentato “Fit for 55”, il programma per accelerare il taglio delle emissioni già entro il 2030.
A ben guardare, invece, le rimostranze contro una transizione “troppo veloce” potrebbero moltiplicarsi anche sul continente. Già nella "verdissima” Germania, dove nel dibattito elettorale persino il socialista Scholz ha preso le distanze dall’“ambientalismo ingenuo” (parole sue). E nel resto d’Europa, dove i prezzi di gas ed elettricità sono ai massimi da anni e l’arrivo del freddo non potrà che farli aumentare. Così, proprio mentre COP si avvicina, un autunno caldo sembra alle porte.

Nell’ISPI Daily Focus di questa sera: Corea del Nord, il ritorno di Rocket man. Su ispionline.it
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2021-09-10 19:07:47
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2021-09-10 19:07:41 BIDEN CHIAMA XI: MOLTO RUMORE PER NULLA?

90 minuti di distensione
Joe Biden chiama, Xi Jinping risponde. Ieri c’è stata la prima telefonata in sette mesi tra i due leader, la seconda in assoluto dall’inaugurazione del presidente americano. Secondo fonti Usa, il colloquio è avvenuto su iniziativa di un Biden "esasperato" dalla riluttanza dei funzionari cinesi a tenere colloqui con la sua amministrazione.
Da entrambe le parti si è parlato di discussione "franca e ampia", volta a evitare che la competizione tra le due maggiori economie del mondo sfoci in conflitto aperto. La telefonata avrebbe toccato "temi su cui gli interessi, le prospettive e i valori dei due paesi convergono e temi su cui divergono”. Ma, a parte i toni concilianti, le divisioni restano intatte.

I nodi della discordia
Sono mesi che Washington critica Pechino per il mancato rispetto dei diritti umani
degli uiguri nella provincia di Xinjiang e di quelli democratici a Hong Kong. Pechino risponde citando gli abusi a Guantanamo. Intanto (manu militari) nel Mar Cinese Meridionale la Cina continua a ribadire la propria (contestata) sovranità, mentre gli Usa espandono le operazioni di “libertà di navigazione” sia lì che nello stretto di Taiwan.
Su tutto, continua ad aleggiare la trade war. Anche dopo Trump, le tensioni commerciali tra Usa e Pechino restano realtà: 360 miliardi di dollari di beni cinesi e 110 miliardi di dollari di prodotti statunitensi sono ancora sottoposti a dazi. Più guerra fredda che vera distensione, insomma.

11 settembre
Anche sull’Afghanistan i due paesi sono agli antipodi. Settimana scorsa, il ministro degli esteri cinese ha rinfacciato agli Stati Uniti che le modalità del ritiro dal paese hanno inflitto "gravi danni al popolo afgano”.
A ridosso del ventennale dell'attacco alle Torri Gemelle, anticamera dell’invasione americana, è inevitabile che Washington si interroghi sulla fine del sogno di diventare il “poliziotto del mondo”. Altrettanto inevitabile che questo anniversario venga letto in maniera opposta a Pechino, galvanizzata da un “recupero” economico sul rivale che prosegue malgrado la pandemia.
Una semplice telefonata non può ricucire queste differenze. E se il clima è da guerra fredda, forse quello che serve è una vera e propria hotline.

Nell’ISPI Daily Focus di questa sera: Un governo per il Libano. Su ispionline.it
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2021-09-09 19:18:19
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