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Disobbedienze

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Gli ultimi messaggi

2022-08-24 22:16:05 Burning Man

In questi giorni Disobbedienze, come avrete notato, non è stata aggiornata. A settembre riprenderò a postare con regolarità. Nel frattempo posto qui qualche articolo scritto nel passato, ma ancora valido per così dire.

Cominciamo con Burning Man che, nella Silicon Valley, rappresenta un appuntamento essenziale per chiunque lavori nel settore tecnologico. In Manuale di disobbedienza digitale ho dedicato un capitolo a questa manifestazione fondamentale per capire l'infrastruttura culturale delle techno-corporation.

Buona lettura!

http://www.nicolazamperini.com/burning-man-e-linfrastruttura-culturale-delle-techno-corporation/
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2022-08-08 20:02:40 Le lenti a contatto intelligenti e la fine degli schermi (segue)

L’Invisible Computing delle lenti di Mojo attiene a una categoria differente, ulteriore: la tecnologia, funzionale a un processo di ridefinizione del nostro corpo, conta sull’apporto necessario, invisibile e persistente di macchine che sono a contatto con il corpo stesso, direttamente con i sensi, e che ci consentono di svolgere una serie di attività.
L’occhio è un po’ più occhio, vede sicuramente più cose; ed è anche un po’ meno occhio, visto che subisce la visione di informazioni che appaiono dal display, senza alcuna decisione del cervello, ma di un sistema esterno che eterodirige.
Parte di questo processo, in realtà, è già avviato. Pensate a come avreste guardato, qualche tempo fa, un tizio con due auricolari nelle orecchie che, per strada, dica ad alta voce: «Siri chiama Nicola». La relazione con gli assistenti personali passa per la nostra voce, senza alcun bisogno di un dispositivo visibile, che rimane in tasca, nascosto.
Il passo successivo è l'utilizzo delle lenti intelligenti, invisibili agli altri e anche a noi.
Scrivono sul blog di Mojo: «niente punta con la stessa rapidità o precisione dello sguardo del tuo occhio. Con il tracciamento oculare ultra preciso è possibile accedere e interagire con i contenuti in realtà aumentata con un semplice sguardo». La chiamano Interfaccia-utente-occhio (eye UI), e sfrutta lo sguardo per selezionare oggetti. La utilizzeremo - guardando - nello stesso modo in cui utilizziamo un mouse o il touch pad dello smartphone.
Guarderemo per leggere, guarderemo per guardare oltre, per fare cose, per evidenziare, sicuramente per acquistare. Già oggi guardiamo attraverso un paio d’occhiali per fotografare e per produrre video (Disobbedienze dell’11 settembre del 2021).
Purtroppo non c’è nulla di rivoluzionario nell’essere cyborg in questo modo, anzi tutto appare molto distante dall’ibrido celebrato da Donna Haraway, come «via d'uscita dal labirinto di dualismi in cui abbiamo spiegato a noi stessi i nostri corpi». Più che una intersezione tra uomo e macchina, sembra una soggezione totale dell’uomo alla macchina. Una resa, piuttosto prevedibile, al potere della miniaturizzazione e della densità di informazioni. Pensate alla riduzione estrema delle dimensioni dei chip e del display microLED, ai sensori intelligenti alimentati da batterie a stato solido integrate, inserite in una lente dello spessore di un granello di sabbia.
Le lenti cosiffatte diventano uno strumento mirabile per raccogliere dati e iniettare dati, lenti tanto piccole e tanto vicine alla nostra retina che il concetto di schermo verrà semplicemente meno, e con esso verrà meno ogni possibile difesa, ogni scudo. Vedremo un mondo denso di informazioni, oltre che di tecnologia. Il panorama delle nostre esistenze sarà popolato di dati, di suggerimenti d’acquisto, di frecce da seguire e direzioni da prendere.
Non sappiamo se queste lenti avranno un vasto utilizzo, oltre ad alcuni campi, penso ai militari e ai medici.
Scrive Mojo Vision sul blog aziendale: «sovrapponendo le informazioni digitali al nostro mondo, le lenti danno potere a ciascuno in modo da migliorare se stesso in ogni situazione».
Se invece le lenti diventeranno popolari come gli smartphone, io credo che alcuni di noi andranno alla ricerca di deserti, non solo deserti fisici, ma di spazi svuotati, deserti, di informazioni, come luoghi in cui fuggire dall’onnipresenza dei dati e delle informazioni; peggio che in Infinite Jest di David Forster Wallace, perché oltre al tempo sponsorizzato, anche tutto lo spazio visibile avrà un qualche genere di sponsorizzazione, tanto vicina ai nostri occhi da essere inseparabile dal panorama, dall’ambiente.

(Ho parlato di questi argomenti nella puntata di oggi di Box Estate, su Rai Radio1, condotta da Annamaria Caresta).

(Disobbedienze su Telegram 2/2)
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2022-08-08 20:01:28 Le lenti a contatto intelligenti e la fine degli schermi

Una lente a contatto che avvicina le informazioni alla pupilla, che avvicina lo schermo al cervello, al senso della vista. Non un’idea, ma un prodotto sviluppato dalla start up, Mojo Vision di Saratoga, California.
Lo scorso giugno, l’amministratore delegato dell’azienda, Drew Perkins, ha provato per la prima volta queste lenti su se stesso. Si tratta di piccoli schermi smart, intelligenti (la definizione è di Mojo Vision), che mostrano immagini direttamente alla nostra retina, attraverso «il display più piccolo e denso al mondo», così è scritto nel blog aziendale. Un accelerometro, un giroscopio e un magnetometro tracciano continuamente i movimenti oculari in modo che le immagini rimangano ferme, mentre gli occhi si muovono. Un chip inserito nella lente, poi, consente al display di proiettare testo, grafica e video ad alta risoluzione sulla retina di chi lo indossa, visibili all'interno, all'esterno o anche con gli occhi chiusi. Una forma piuttosto avanzata di realtà aumentata, senza bisogno di occhiali o ingombranti visori.
Mojo Vision sostiene che useremo le lenti a contatto per ottenere informazioni di qualunque genere: «la direzione lungo una strada o una pista ciclabile, l'indirizzo di un appuntamento o le ultime proiezioni di vendita». Oppure le coordinate di un negozio, di un prodotto da acquistare, di una persona che ha i stessi nostri interessi (immaginate una corrispondenza di interesse tra umani, un match Tinder basato sugli sguardi). Per l’azienda ciò che più conta è farci «concentrare sulle nostre priorità, senza seppellire il viso in uno schermo o farsi distrarre da un dispositivo mobile». Non aveva tutti i torti Mark Zuckerberg quando parlava del Metaverso come di una Internet incarnata.
L’ambizione della start up di Saratoga è quella di trasformarsi in una piattaforma in cui altri sviluppatori, terze parti, faranno girare le proprie applicazioni. Sceglieremo l’app del navigatore o della guida di una città, l’applicazione con i consigli per gli acquisti o quella che ci mostra in diretta i nostri dati biometrici mentre ci alleniamo, sempre sullo stesso paio di lenti a contatto.
Oggi le lenti di Mojo Vision mostrano seri limiti che impediscono di pensare a un’immediata diffusione di massa: hanno bisogno che l’utente indossi un cappello con una specie di antenna e un altro processore indossato come una collana, ad esempio. Problemi di trasmissione e di elaborazione dati, ma non di alimentazione, grazie a microbatterie che si usano in campo medico e che le fanno funzionare a lungo. Quale che sia l’immediato esito commerciale di questo prodotto, ritengo che le lenti siano comunque oggetti utili a capire come affronteremo la relazione con tecnologie di visione e di realtà aumentata, in un futuro non troppo distante.
In questo senso Mojo pensa di poter essere d’aiuto agli ipovedenti, ed è in attesa di approvazione da parte dell’FDA (l’agenzia che autorizza farmaci e dispositivi medici). Tuttavia accanto alle soluzioni cliniche, a me pare più rilevante il passo che lenti a contatto di questo tipo fanno fare all’essere umano, e che Drew Perkins definisce InvisibleComputing.
Nel test condotto nei laboratori della sua azienda, Drew Perkins ha letto una citazione da un teleprompt, un gobbo elettronico, che non era esterno al suo corpo, ma a contatto col suo corpo, così vicino da risultare quasi il corpo. L’ennesima situazione in cui l’utilizzo della tecnologia pone l’essere umano nella prospettiva del cyborg. Siamo oltre l’indossabilità: una lente non è un orologio, per capirci.
La tecnologia sparisce alla vista per essere assorbita dai nostri sensi. Siamo oltre la condizione in cui molta tecnologia sparisce perché è così ubiqua da essere considerata scontata. Nessuno pensa all’antenna del televisore o si chiede dove scorrano i dati che vi fanno leggere le parole di questo articolo, sebbene esista una tecnologia sottostante, più o meno visibile, che ci consente di fare una serie di cose.

(Disobbedienze su Telegram 1/2)
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2022-07-30 14:24:55 La fine prematura dei social network (segue)

Mark Zuckerberg
intende seguire questa strada, anzi ha detto che, entro il 2023, la società raddoppierà la quantità di contenuti raccomandati «che rappresentano oggi il 15% dei contenuti su Facebook. Questa percentuale è più alta su Instagram». Nel giro di un paio d’anni il 30% di quello che vediamo nei social di Meta sarà stabilito da una macchina.
A me pare che la differenza significativa tra TikTok e Instagram si concentri oggi più sull’efficacia nella raccomandazione, che sulla percentuale di raccomandazione.

Tutto ruota attorno a un costrutto essenziale per qualsiasi piattaforma: la navigazione degli utenti dev’essere sempre confortevole. Le persone devono trovarsi a loro agio nell’acquario. Che poi i contenuti provengano da macchine o da umani mediati dalle macchine non se ne accorge nessuno.
Non credo ci vorrà molto perché Meta corregga i propri errori, e finisca per tacitare la signora e mostrarle infiniti Reels di gerani e di piatti di pasta che le piacciono, prodotti da gente sconosciuta.
Oggi poi, Zuckerberg ha bisogno di mostrare agli investitori la centralità dell’intelligenza artificiale nella sua azienda. La scommessa sul Metaverso ruota attorno alla capacità di calcolo e previsione delle interazioni che sarà molto maggiore di quanto immaginiamo. Invece di scorrere il feed di Instagram e incappare in un Reels, incapperemo in un avatar pubblicitario, in un uomo-sandwich virtuale e in 3D, suggerito dall’intelligenza artificiale.

A partire da questa vicenda, altri hanno scritto che le piattaforme sono diventate ormai spazi di intrattenimento. Pure questa affermazione è sbagliata. I social sono sempre stati luoghi di intrattenimento, essendo anche molte altre cose insieme: spazi di relazioni, in primo luogo.
Non avrebbero il successo che hanno, se rispondessero a un solo bisogno, più o meno indotto, dell’umanità.
Ecco un esempio, Adam Mosseri, capo di Instagram, ha spiegato in un’intervista che molti contenuti vengono oggi condivisi tra le persone nei messaggi, privatamente, e si può immaginare che intorno a quei contenuti le persone discutano.
Non sono relazioni queste?
Credo che piuttosto che riferirci ai social network come spazi generalisti, dovremmo cominciare riferirci ad essi come ad ambienti segmentati per classi di età prevalenti.
Le applicazioni investono ambiti generazionali in modo da limitare al massimo i collassi del contesto; e poi generano estetiche condivise e soprattutto condivisibili. Mia madre, che ha più di 70 anni, potrebbe trovare confortevole Facebook, ma non capirebbe proprio TikTok, così come non lo capisco io che di anni ne ho 52.
I numeri dicono che circa un quarto degli utenti di TikTok ha meno di 24 anni.
Per un’azienda avere un pubblico vecchio rappresenta un problema ovviamente, ma più importante di ogni altra cosa è avere comunque un pubblico.
Altro limite di queste letture funeralizie circa destino dei social, è l’approccio occidente-centrico.
L’obiettivo delle piattaforme è competere sul mercato del next billion (Disobbedienze del 16 luglio 2020), e cioè cercare di conquistare quel miliardo di cittadini del mondo, per lo più di paesi in via di sviluppo, che non hanno ancora una connessione e presto l’avranno.
Sempre Mosseri racconta a Casey Newton che da quando in India sono diminuiti i costi di connessione, la quantità di tempo che le persone trascorrono su Internet è esplosa. E molto più velocemente è aumentato il tempo dedicato ai video.
Sempre Mosseri: «quando le reti diventano più veloci, quando i dati diventano più economici, le persone si spostano sempre di più verso i video».
Per concludere, non sto dicendo che le modifiche all’algoritmo di Instagram siano irrilevanti. Sto dicendo che la scoperta di una centralità algoritmica, nell’analisi di come le persone fruiscono dei social, pare piuttosto tardiva. È sempre stato così: gli umani cercano di piegare a loro vantaggio le funzioni che gli algoritmi abilitano. Non esiste altro spazio, figuriamoci uno spazio negoziale.

(Disobbedienze su Telegram 2/2)
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2022-07-30 14:24:28 La fine prematura dei social network

Avrete visto anche voi negli ultimi giorni questo post che circola su Instagram, e che fa sorridere, di una tizia americana che recita: Make Instagram Instagram Again. Richiesta che fa il verso allo slogan di Donald Trump, Make America Great Again.
Il post è stato condiviso addirittura da Kim Kardashian e Kylie Jenner, super influencer seguite 326 milioni e 361 milioni di follower. Make Instagram Instagram Again chiama a una specie di protesta contro le modifiche apportate all’algoritmo e al design di Instagram negli ultimi tempi. Molti utenti affermano che ormai quando aprono l’applicazione sono invasi da pubblicità e suggerimenti di Reels di persone sconosciute. Altri utenti invece sarebbero vittime della sperimentazione di un Instagram alla TikTok, e cioè a tutto schermo.
La protesta fa sorridere perché - giova ricordarlo - gli utenti di un social network non rappresentano i clienti di un social (quelli sono gli inserzionisti), sebbene essenziali, gli utenti non contano nulla finché il social è densamente popolato, in crescita e redditizio. Finché la loro esperienza di navigazione appare confortevole (ne parliamo più avanti).
L’azienda di Mark Zuckerberg non sta lì a soddisfare le paturnie della signora in questione che reclama il vecchio feed, con le foto carine dei gerani e dei piatti di pasta. Meta ha bisogno di realizzare una sintesi tra prospettive di profitto per per finanziare la sua sua scommessa sul Metaverso e confortevolezza della navigazione per la maggior parte degli utenti (anche di questo parliamo più avanti). Ecco perché Zuckerberg procede per la sua strada: nell’ultimo «trimestre - ha detto agli investitori - abbiamo registrato un aumento di oltre il 30% nel tempo che le persone hanno trascorso a interagire con i Reels su Facebook e Instagram».
Siamo di fronte all’ennesimo caso di un’applicazione che vede insidiato il suo primato, e si ritrova a copiare il rivale di maggior successo.
Instagram copia oggi TikTok, come ieri aveva copiato Snapchat, perché TikTok ha un grande successo. A proposito di come funziona TikTok, Vincenzo Cosenza ha scritto che il social cinese è alimentato da «un “algoritmo comunista” che seleziona i contenuti prevalentemente in base a logiche di interesse potenziale e non di connessione tra account. Un “discovery engine”, non un “priority engine”».
Negli ultimi giorni, più d’uno ha letto questa vicenda come un processo che condurrà alla morte dei social network (che esagerazione!), soppiantati da social di raccomandazione. La contrapposizione sarebbe tra un modello in cui i contenutiti suggeriti passavano dai consigli degli amici, a un modello completamente automatizzato, in cui i suggerimenti arrivano da un’intelligenza artificiale.
Per la verità, i social network utilizzano algoritmi di raccomandazione basati su sistemi di AI fin dalla loro nascita.
Oltre il 70% del tempo che le persone trascorrono su YouTube non deriva da scelte o ricerche delle persone, ma da consigli algoritmici (Disobbedienze del 6 febbraio 2021). Non deriva insomma da un atto di libero arbitrio, ma da una solerte passività di fronte all’implacabile proposta di una macchina.
Facebook stesso, che oggi appare ai più giovani una specie di reperto archeologico, sfrutta da sempre un’intelligenza artificiale che suggerisce post sulla base di numerosi fattori, a partire dalle nostre preferenze. Pesca quindi i contenuti in una rete limitata ai profili degli amici, alle pagine seguite e alle pagine seguite dagli amici, perimetro molto ampio, a essere onesti. Anche Instagram si è comportato più o meno allo stesso modo.
La differenza con TikTok - e col suo algoritmo che definirei totalitario - risiede nella possibilità di vedere contenuti per lo più prodotti da sconosciuti, che tuttavia trattengono gli utenti nell’applicazione.

(Disobbedienze su Telegram 1/2)
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2022-07-17 21:47:43 Lo sciamanesimo e il capitalismo digitale (segue)

Una via al successo modellata sul famoso viaggio di Steve Jobs in India, fonte di ispirazione di tanti leader aziendali, a partire da Mark Zuckerberg che anni dopo ne ha ripercorso le tappe. Viaggi venduti come stagioni di ricerca del proprio sentiero spirituale, che sono piuttosto risciacquature del buddismo nelle acque della new age californiana.
In realtà Jobs aveva in mente un percorso di comunicazione e marketing della propria persona, e della propria azienda, estremamente chiaro: trasformare Apple e renderla appunto simile a un culto, e trasformare se stesso nel sommo sacerdote di questa religione. Molte pagine sono state scritte su questo tema e sul valore del colore bianco nell’estetica della casa di Cupertino: pensate agli Apple store, alle confezioni immacolate degli iPhone. Pensate a quale straordinaria leva di marketing di prodotto è stato l’uso del bianco in un’epoca in cui i computer sembravano poter essere soltanto neri, e l’azienda da combattere, IBM, era soprannominata Big Blue.
I fondatori delle aziende tecnologiche si rappresentano, insomma, come sacerdoti di religioni settoriali dedite a cambiare porzioni di mondo (mai a vendere qualcosa!), ad alleviare il peso degli attriti nelle nostre esistenze e a sfidare la pesantezza del capitalismo tradizionale.
Scopriremo nuove pratiche di privazione anno dopo anno, nuovi modi per hackerare il corpo e sistemi per dormire meno e lavorare di più. Ancora una volta questa gente sta lì a stabilire un esempio da da seguire, un esempio da raccontare sui social, e state certi che in molti lo seguiranno (il successo dei dispositivi contapassi, nati sull’onda del movimento del quantified self, sta lì a dimostrarlo).
I capitalisti digitali rappresentano la via californiana al capitalismo digitale, i cui fondamentali non paiono in discussione. Resta lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo secondo modalità tradizionali (pensate agli operai delle fabbriche cinesi che producono lo smartphone sul quale state leggendo queste parole, che lavorano 9 ore al giorno, 6 giorni la settimana, secondo il modello 996). E avanza lo sfruttamento dei dati estratti dalle nostre esistenze e raccontato in maniera illuminante da Soshana Zuboff.
Il biohack, la privazione, il postumanesimo, l’attitudine allo sciamanesimo costituiscono parte integrante del racconto di questo modello di capitalismo, che non è solo una variante regionale del capitalismo tout court ma ne rappresenta uno dei vertici assoluti della piramide.
Dovremmo sforzarci di più di comprendere i percorsi mentali di questi umani, tanto separati da noi. La melassa culturale che li avvolge, e che finisce per determinare la sostanza dei prodotti e dei servizi che vendono, delle società in cui viviamo.
Se è vero che il capitalismo, compreso quello digitale, non muta nella sostanza, cambiano però profondamente le modalità con cui questi capitalisti cercano di sedurre le persone. L’inconsistenza di molte nostre analisi deriva anche dalla difficoltà e dalla incapacità di comprendere questo loro modo di pensare e vivere, che non può essere invece relegato a fenomeno di costume o considerato una stranezza, un vezzo da miliardari.
Infine, fateci caso, ciascuna di queste pratiche di privazione, di hacking del corpo e della mente, ha come oggetto - sempre e soltanto - l’individuo. Tutto ruota attorno alle capacità del singolo che sembra dover essere indifferente e slegato dalle comunità cui appartiene e in cui vive. Conta la monade le cui performance vanno potenziate giorno dopo giorno, con sistemi sempre diversi, in cui la privazione possa essere esibita e venduta come l’ennesima merce da esibire.

(Disobbedienze su Telegram 3/3)
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2022-07-17 21:46:58 Lo sciamanesimo e il capitalismo digitale (segue)

Elon Musk
sostiene di poter vivere senza nulla, soprattutto senza nulla di sua proprietà (dopo averlo dichiarato s’è affrettato a vedere svariate ville: «Elon Musk Has Sold Seven Homes for Nearly $130 Million After Vowing to ‘Own No House’» così titolava il Wall Street Journal lo scorso marzo); lo stesso Musk spera di trovare sistemi alternativi alla tradizionale nutrizione, in moda da poter affrontare la privazione del cibo attraverso meccanismi più efficaci che non gli facciano perdere tempo con i pasti. Lo stesso Musk attraverso Neuralink, azienda che vende interfacce cervello-computer, afferma che «superumani ciberneticamente aumentati non solo sono in grado di superare il flagello della malattia e della disabilità, ma trascendono completamente la loro forma fisica attraverso l'integrazione diretta con macchine e tecnologia».
L’autore dell’articolo di Wired, Manvir Singh, ha analizzato 43 società non industriali, e ha scoperto che «gli sciamani, nell'81% dei casi, osservavano divieti riguardanti il cibo, il sesso o o contatti sociali». Il genere di privazione della Silicon Valley, sostiene Singh, è una manifestazione più recente di una pratica sciamanica tradizionale. Questo genere di pratiche rende gli sciamani «più austeri, più distinti dalla gente comune e più potenti, in maniera soprannaturale».
Ma non esiste soltanto la privazione, molti di loro si dedicano a meditazione, ritiri silenziosi, microdosaggio di droghe, dal peyote all’MDMA, e farmaci (sempre Musk utilizza lo Zolpidem per dormire, e qualcuno sostiene sia causa di molti suoi tweet fuori fuoco, diciamo così). Sostanze che sintetizzano in laboratori che si costruiscono dentro le loro ville. Vanity Fair, nel marzo 2021, ha riportato il commento di un CEO tecnologico, il quale aveva assunto «dimetiltriptamina (DMT), una droga sintetica, che è come fare 10 anni di psicoterapia in cinque minuti».
Tutti comportamenti che rientrano nel genere di ossessioni tipiche del biohacking, ma che definiscono anche nuovi modelli di conduzione aziendale, nel capitalismo che ha preso forma da quelle parti. Il paradigma non è più l’uomo dell’organizzazione, reso esemplare dal bestseller di William H. Whyte, i manager incolore degli anni ’50 e ’60, in giacca e cravatta, che erano per lo più ignoti al grande pubblico. Oggi il mercato richiede figure che propongano un’immagine di sé inedita: «le prestazioni carismatiche sono più importanti nella tecnologia - scrive Singh -, devi convincere le persone a entrare a far parte dell'azienda e ad accettare la missione».
Più precisamente ritengo che la proposta sia fondata su una sintesi tra carisma dei fondatori (perfettamente narrato) e salvezza per l’umanità che da raggiungere attraverso applicazioni e device. Il risultato somiglia a una specie di religione, pure qui c’è un testo di qualche anno fa che proponeva tutto ciò: The Culting of Brands: Turn Your Customers into True Believers, di Douglas Atkin. E quindi, chi meglio di uno sciamano, che si priva di molto se non di tutto, per accompagnare i fedeli in territori sconosciuti.

(Disobbedienze su Telegram 2/3)
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2022-07-17 21:45:15 Lo sciamanesimo e il capitalismo digitale

Per un periodo della sua vita Steve Jobs ha mangiato solo mele. Per anni ha mangiato solo frutta, definendosi a seconda del momento melariano o fruttariano.
La creatrice di Theranos, fallimentare e truffaldina start up miliardaria che prometteva di conoscere tutto di un uomo a partire da una singola goccia di sangue, Elizabeth Holmes, si cibava soltanto di un infuso di cavolo nero, sedano, spinaci, prezzemolo, cetriolo e lattuga. Il fondatore di Zappos, Tony Hsieh, praticava una “dieta alfabetica” di 26 giorni: mangiava solo cibi che iniziavano con una lettera diversa ogni giorno. Altri CEO, come Phil Libin di Evernote, sono adepti del digiuno intermittente. Qualcuno di loro ha propagandato addirittura il digiuno da dopamina: un'astensione non solo dal cibo ma da qualsiasi forma di stimolazione: musica, gioco, contatto visivo.
Pratiche simili non sono infrequenti in quel mondo a parte che è la Silicon Valley. Il biohack, la possibilità di alterare e migliorare il proprio corpo e le proprie performance, a partire da pratiche come la privazione, va molto di moda laggiù. Dopotutto quando possiedi ogni cosa o potresti - letteralmente - possedere ogni cosa, il corpo diventa un confine di sperimentazioni e acquisizioni mai provate prima. Forse l’unico confine possibile.
Qualche giorno fa Wired ha pubblicato un articolo che raccontava le pratiche di privazione di molti CEO della Silicon Valley. Il pezzo, dal titolo «The ‘Shamanification’ of the Tech CEO», concludeva che gli amministratori delegati delle techno-corporation stanno tentando di sperimentare una sorta di auto-sciamanesimo.
Chi sarebbe uno sciamano? In maniera molto sintetica potremmo dire una via di mezzo tra un mistico, un sacerdote, un poeta e ovviamente un mago, il quale - dopo una vocazione e attraverso un’intercessione con spiriti di varia natura - cerca di guarire il prossimo, «promettendo il controllo dell’incerto». Che tutto questo possa avere a che fare con i CEO della Silicon Valley parrebbe tutto da dimostrare. Tuttavia se allarghiamo i confini di una definizione, che qui dentro non può essere che striminzita, qualche assonanza la troviamo.

(Disobbedienze su Telegram 1/3)
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2022-07-10 22:44:58 L’inquinamento digitale degli interpreti frettolosi

Alla fine Elon Musk non comprerà Twitter. Credo di no.
Chi ci risarcirà allora dal rumore di questi mesi intorno alla scalata fallita?
Come potremo mai riaverci dai miliardi di byte, di interpretazioni e sagaci letture sulla volontà di potenza di un tecno capitalista, di cui la maggior parte dei sedicenti analisti non conosce nemmeno il percorso imprenditoriale?
Elon Musk è un bizzarro e feroce businessman, ha deciso che il social network costava troppo e adesso deve trovare il modo di uscirne. È uno che dice: «ho la mentalità di un samurai. Preferirei commettere seppuku (il suicidio rituale) piuttosto che fallire». Avrà intuito che era prossimo all’hara-kiri e ha lasciato perdere. Le scelte di un uomo crudele e ricchissimo, le cui strategie sono sempre state considerate ridicole, prima di diventare di clamoroso successo, noi - purtroppo - possiamo capirle soltanto dopo.
Ci incaponiamo a sfoderare interpretazioni - in tempo reale! - su chi ha un approccio all’esistente e al capitalismo, differente in maniera siderale dal nostro e andiamo a sbattere. Nessuno ci risarcirà dell’inquinamento digitale derivante dalle lungimiranti analisi di una tentata scalata che non si farà mai. Su Disobbedienze è la prima volta che ne scrivo, a giochi quasi fatti, perché credo che il caso emblematico non sia il fallimento di Musk ma il nostro fallimento di interpreti, la fretta di affidare alla conversazione non un punto di vista, ma uno dei primi punti di vista.
Le analisi rapide e inutili sono state troppe, e non hanno aiutato a capire quasi nulla.
Se la nostra attenzione è un bene scarso, dovremmo convenire che è anche prezioso, e dovremmo dunque proteggerlo.
Siamo davanti a uno di quei casi in cui appare difficile sfuggire alla conversazione. Le piattaforme reclamano una parola, un articolo, un tweet, una diretta Twitch per provare a dire e spiegare qualcosa. Cercando di interpretare mosse di un tizio che ha sconvolto il mercato dell’automobile e dei viaggi spaziali, dal nostro singolare punto di vista.
Un bel tacer non fu mai scritto, ricorda il proverbio.
La ragione, tuttavia, per la quale oggi ne scrivo è proprio per gli effetti che si abbattono su di noi. Le notizie, le idee e le opinioni sono già ridotte a commodity - merci fungibili, di scarso o nessun valore -, proprio in virtù di questa abbondanza, che non ha rispetto per la qualità delle stesse idee. Dovremmo poi ammettere che la maggior parte dei contenuti che produciamo non influisce in alcun modo sulla vita delle persone. La maggior parte dei milioni di noi che si è incaponita a interpretare il non interpretabile, non lavora al New York Times, non è nemmeno Pasolini quando scriveva sul Corriere, l’unica è Chiara Ferragni, si parva licet. Siamo troppo inseriti in un flusso gigantesco che oltre a rendere le idee commodity, le confonde, le mescola, le rende flusso indistinto.
Così come qualsiasi nostro post di indignazione su un social network, un contenuto digitale sulla scalata a Twitter produce una lieve e immediata stimolazione nell’indice del nostro personale narcisismo e poco più.
Per il resto tutto il rumore, l’insignificante rumore di questi mesi, ha avuto bisogno di spazi in cui essere dislocato, di energia elettrica e dunque di risorse naturali, di attenzione e concentrazione che avremmo potuto rivolgere a qualcos’altro, a qualcosa di meglio, nel caso in cui siamo stati solo lettori. Se invece ne abbiamo parlato, scritto, dovremmo ammettere quanto tutta questa conversazione non sia altro che un’immane cornucopia insensata. E che tutti i contenuti digitali invecchiano precocemente. Dovremmo chiederci, ogni volta che pubblichiamo qualcosa, quanto durerà? Un mese? Un anno? Oppure l’impermanente che abita le timeline dei social network ha contagiato anche le nostre idee che valgono un tempo limitato. Come le storie su Instagram, massimo 24 ore.

(Disobbedienze su Telegram)
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2022-06-20 19:48:21 La voce splendida e ambigua dell’intelligenza artificiale (segue)

A furia di leggere impara a scrivere; procedimento che dovrebbe valere pure per gli uomini.
A furia di leggere, l’AI colma statisticamente i vuoti tra una parola e l’altra. Operazione non semplice in astratto, eppure stando a molti commentatori, la scelta del vocabolo esatto pare sia solo questione di tempo e di potenza di calcolo, con buona pace di Flaubert.
L’interazione, secondo alcuni non andrebbe chiamata intervista, tra la macchina e il suo creatore è la prova di una semplice equazione. Il rapporto quindi tra la quantità di parole possibili - più di un miliardo di miliardi - che hanno ingozzato LaMDA come una oca da foie gras inchiodata al pavimento di un data center, e quindi tra idee ricevute (idées reçues), logorrea dei blogger, luoghi comuni, Wikipedia, tra la bêtise e la singola parola esatta scelta dalla macchina per colmare un vuoto (le mot juste, sempre Flaubert che la cercava facendosi aiutare dall’orecchio), insomma la relazione tra questa immane massa di cose, lette e imparate, e una singola precisa parola, tra il tantissimo e il pochissimo, che riempie uno spazio bianco, si riduce a una mera relazione statistica.
La parola che colma il vuoto è quella che - con buona probabilità - doveva colmare quel preciso vuoto, rispettando il contesto, le premesse e con una certa dose di ironia…
Come fanno così tanti informatici a sottovalutare questo processo?
A non riconoscere la voce, per ora unica, e il valore delle parole scelte per lo spazio e l’intera pagina bianca da LaMDA?
Se penso alle ore che servono a trovare la parola giusta, scorgo una feroce invidia per la macchina che fa tutto in un baleno, grazie a una rete neurale che imita, oltre al linguaggio, anche il mio cervello senza le pesanti scorie di un’intera vita o d’una giornata qualsiasi.
«Il nuovo non si produce mai per semplice interpolazione del vecchio», ricorda uno scrittore dalla voce riconoscibile e attento allo sviluppo della tecnologia, come Michel Houellebecq. Dice una cosa che nella Silicon Valley chiamano con maggior trionfalismo crescita esponenziale (il volume The Exponential Age: How Accelerating Technology is Transforming Business, Politics and Society, scritto da Azeem Azhar), la sostanza è la stessa.
Nelle parole di Houellebecq e nel testo di Azhar compare l’ammonimento a osservare e interpretare il presente con categorie adatte alle circostanze: salti e non interpolazione, numeri immani e non gradualità. La velocità e la radicalità di alcuni processi hanno consentito a Google di produrre una macchina come LaMDA che ha ingannato molti di noi.
Coscienza o meno, chi l’avrebbe mai immaginato qualche anno fa?
Non ancora smentito, Blaise Agüera y Arcas, altro ricercatore di Google, ha scritto in un articolo per The Economist che «le reti neurali artificiali fanno passi avanti verso la coscienza».
Oggi sul Wall Street Journal compare un articolo in cui l’autore si chiede se l’America è pronta a vedere sfrecciare lungo le proprie autostrade i primi camion a guida autonoma. Un mezzo che «non sarà intelligente o adattabile come un essere umano, ma avrà sensi sovrumani e non avrà bisogno di riposare». Tra la lavatrice e Guerre Stellari, per tornare agli estremi utilizzati da Floridi, esiste uno spazio vasto, e bianco. E soprattutto, insieme alla tecnologia che sta dentro le macchine, insieme all’etica, che dovrebbe guidarne la progettazione, compare la reazione e il turbamento degli esseri umani, i quali si troveranno di fronte altri soggetti non umani e non senzienti, senza alcuna coscienza, ma che saranno addestrati a fare cose come guidare e conversare, ingannare o aiutare proprio quegli stessi - turbati - esseri umani.
Che reazione avranno?
Forse dovremmo riconoscere che ha ragione Lemoine, almeno nel suo essere stupito, colpito dall’eloquenza della macchina che egli ha addestrato. Se non ci meravigliamo oggi potremmo ricavarne qualche sorpresa domani.

(Disobbedienze su Telegram 3/3)
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