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2022-01-14 21:15:46 Quelli che criticano chi si fa i selfie davanti alle bare (segue)

Forse dovremmo cominciare a considerare la maggior parte dei politici come influencer che hanno visibilità e una fan-base, indipendentemente dalle loro qualità di social media management. Avere tanti follower non significa capire come funziona la politica, così come avere molti voti non significa capire come funzionano i social network. Semmai disporre, a qualsiasi titolo, di molti follower dovrebbe comportare una grande responsabilità, ma questo è un altro discorso e purtroppo accade di rado.
Dobbiamo ammettere che allo stesso modo dei cittadini-rappresentati molti rappresentanti, molti politici, si muovono goffamente nello spazio digitale. In primo luogo ne ignorano le regole, si limitano a usare uno strumento essenziale per raccogliere consenso, senza tuttavia conoscerne i meccanismi di funzionamento. E non è nemmeno colpa loro.
Direbbe uno più giovane di me che la maggior parte dei politici, compresi quelli criticati in questa occasione, appartiene alla categoria dei boomer. E l’essere boomer, di solito, ha un portato di inconsapevolezza: arriviamo molto dopo a renderci conto di essere boomer. Per capirci, secondo wikipedia: il termine «è utilizzato dalle generazioni dei nati a cavallo tra il secondo e il terzo millennio (o direttamente in quest’ultimo) come indicatore di una generazione portatrice di modi di pensare e agire conservatori, superati e perfino nocivi».

Capite bene quanto sia ossimorica allora la condizione di molti politici che vestono l’abito dell’influencer e del boomer allo stesso tempo (prometto di utilizzare boomer solo un altro paio di volte).
Tra l’altro, mentre alcuni politici sembrano nati per l’autorappresentazione in modo che tutto sembri autentico nello spazio digitale, e assonante con la conversazione del proprio pubblico di riferimento, altri non riescono proprio a capire come funzioni, come si possa scattare un selfie senza sembrare ridicoli. O più banalmente non riescono a cogliere la grammatica dell’autorappresentazione a un funerale che finisce sui social.

(Disobbedienze su Telegram 2/3)
173 viewsedited  18:15
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2022-01-14 21:08:53 Quelli che criticano chi si fa i selfie davanti alle bare

Molte critiche, pesanti accuse. Fa riflettere la reazione ai selfie dei politici in posa davanti al feretro di David Sassoli. Fa riflettere perché sembra una reazione estranea alla realtà e incomprensibile, se si guarda al comportamento collettivo. In questi anni, nessuno - politici, rappresentanti delle istituzioni, aziende e persone comuni - ha esibito atteggiamenti che rispondevano a una sorta di galateo digitale. Le persone comuni hanno perduto qualsiasi pudore di fronte alla morte (c'è un bel saggio di Davide Sisto, La morte si fa social). Milioni di utenti, noti e meno noti, hanno fatto di tutto davanti ai vivi e ai morti, ai moribondi e ai nascituri, dal momento in cui l'umanità ha preso a vivere e ad autorappresentarsi nei social network.
Non si capisce adesso per quale ragione la politica debba o possa sovvertire simili comportamenti. Debba o possa sottrarsi a questo modo di stare dentro i social.
Qualche giorno fa un rapper famoso ha pensato bene di postare l’ecografia morfologica del figlio o figlia, che nascerà tra qualche mese, sul suo profilo Instagram. Non è il primo e non sarà l’ultimo.
Purtroppo, e incomprensibilmente, chi li critica considera i politici come una componente separata, elevata, della società. Ha l’idea insomma che i rappresentanti debbano, possano, essere radicalmente diversi dai rappresentati, premessa infondata soprattutto in un ecosistema digitale in cui il paradigma è - al contrario - proprio la presunta parità tra gli utenti.
Non erano sia i rappresentati che i rappresentanti a chiedere che uno valesse uno?

La verità è che se oggi Steno o Monicelli dovessero girare un terzo episodio de I Mostri, I nuovi social-mostri, avrebbero a disposizione una grande quantità di materiale proprio in questo ambito, per realizzare almeno un paio di film a episodi.
Per dire, vi ricordate i necrofori argentini che si fecero il selfie di fronte alla bara aperta di Diego Armando Maradona?

(Disobbedienze su Telegram 1/3)
223 viewsedited  18:08
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2022-01-13 21:04:27 I meme supponenti e le guerre vinte coi social

Avrete visto, in questi giorni, questo meme crudele rivolto a chi aveva copiato e incollato sulla propria timeline una specie di avviso rivolto a Meta, con l'ingiunzione di non utilizzare le proprie immagini. Uno Zuckerberg accigliato che telefona a Sandro Perisutti di Latina, chiedendogli la cortesia di fargli utilizzare la sua foto “a Ostia, con gli zii di Terni e la maglia di Totti”. Davvero una crudele ironia rivolta contro l'incolpevole massa di analfabeti digitali, si dirà. Nessuno, però, credo possa alzare il dito e stigmatizzare l’ignoranza quando si tratta di cedere i propri dati a un social network.
Già il solo fatto di utilizzare un meme, viene da dire, azzera qualsiasi intento didattico.
.
Nel 2019 la NATO, sempre più attenta alle guerre digitali, ha condotto un’esercitazione in cui provato a utilizzare i social network per orientare una battaglia. Il Centro di eccellenza per le comunicazioni strategiche dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico ha schierato un gruppo di esperti in ingegneria sociale per danneggiare una squadra rivale composta da 150 soldati. 
Gli esperti hanno speso 60 dollari in bot, hanno creato identità fasulle e utilizzato dati aperti, quelli che potevano ricavare navigando sui profili social degli avversari. I ricercatori sono stati in grado, in breve tempo, di recuperare numeri di telefono, e-mail e identità dei soldati. Hanno mappato i loro collegamenti con altri membri delle forze armate, determinato la posizione precisa, nel raggio di un chilometro, e convinto i soldati a inviare selfie con la loro attrezzatura militare.
Secondo un primo rapporto azioni di questo tipo potrebbero consentire di «individuare le posizioni esatte di diversi battaglioni» e tracciare i movimenti delle truppe. Non solo, «il livello di informazioni personali che abbiamo trovato era molto dettagliato e ci ha permesso di orientare comportamenti indesiderati». Janis Sarts, direttore del Comando strategico della Nato ha dichiarato: «ogni volta che abbiamo tentato di manipolare i comportamenti, ci siamo riusciti».
Ci sarebbero molte riflessioni da fare, prima di tutto su quanto contino azioni di questo tipo nelle guerre ibride del presente, non del futuro.
E più ancora sulla quantità di informazioni che abbiamo ceduto nel corso di questi anni. Informazioni che hanno creato un nostro, sempre mutevole, identikit digitale.
Facebook ha cominciato a diventare popolare in Italia nel 2008, Instagram qualche anno dopo.
Siamo sicuri che prendere in giro qualcuno che non sa cosa Zuckerberg faccia con le foto profilo sia così intelligente?
Se osserviamo il nostro percorso di vita in un social, negli ultimi dieci anni o più, siamo in grado di misurare quanto di noi stessi abbiamo raccontato alla macchina?
La risposta è no.
L’esperimento da fare è sempre lo stesso: provate a scaricare i dati (su Instagram dentro impostazioni>sicurezza), provate a osservare le migliaia di interazioni che avete generato. Provate a calcolare il tempo impiegato o perso a fare tutto questo.
Non esiste un soldato dall’altra parte che tenti di ingannarci, ma solo una macchina che vuole profilarci, catturare il nostro tempo e la nostra attenzione e venderci qualcosa. Ecco questa battaglia direi che è persa, da un pezzo.

(Disobbedienze su Telegram)
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2022-01-13 21:03:13
Mark Zuckerberg e Sandro Perisutti di Latina...
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2022-01-10 23:52:57 Mi faccio un social network tutto mio (segue)

La marginalizzazione ricercata, esibita o subita, nell’ecosistema digitale porta sempre a risultati positivi. Più disponete di una nicchia da coltivare, più la nicchia è definita e circoscritta a piacere, più avrete successo. D’altronde, l’abbiamo ripetuto molte volte, Internet stessa è una massa di nicchie.
La legge della coda lunga rappresenta una costante del successo nello spazio digitale: da Amazon a Netflix. Chiunque se intende prevalere nel mercato, come in politica, deve capire come funziona e volgere la coda lunga a proprio vantaggio. In questo senso la definizione Netflix politica, che pure qualcuno ha tirato in ballo, è parziale e coglie solo un effetto, un aspetto superficiale, della dinamica del consenso nello spazio digitale. Non è tanto la partecipazione degli influencer che scelgono temi sui quali intervenire, quanto il sottostare degli stessi influencer alla legge della coda lunga: la ricerca quindi di temi, di spazi politici, di consenso e di engagement rispetto ai quali posizionarsi sottosta a questa semplice ma essenziale formulazione. Serve trovare temi che interessano a diverse e specifiche community, anche piccolissime.
Forse sarebbe più opportuno parlare di Long Tail Politics: la somma di tante nicchie che vedono rappresentato il proprio singolo interesse, e scelgono un candidato-influencer il quale ha il solo compito di fare sintesi, a partire dalle parole d’ordine nel proprio spazio digitale. La pubblicità in dark, cioè un messaggio mostrato nei social soltanto a chi è interessato a uno specifico tema e non ad altri, è lo strumento principe della Long Tail Politics. Capite bene che in questo modo non esiste nemmeno più il problema della contraddizione tra esigenze e interessi divergenti. Ci pensa il candidato-influencer a chiudere il discorso utilizzando slogan coinvolgenti, meme, cornici politiche vaste e oppositive di solito.

Questo meccanismo sarà amplificato nel e dal nuovo social network. Trump non avrà più tra le scatole regole standard, le norme di comportamento della comunità, stabilite da un Jack Dorsey o da un Mark Zuckerberg qualsiasi. Penserà a tutto lui. Potrà coltivare tutte le nicchie che vorrà, profilandole e indirizzando loro messaggi sempre più mirati e contraddittori.
Le 50 milioni di mail rappresentano la base per strutturare una super nicchia che darà filo da torcere a un partito democratico (che pure è vittima della Long Tail Politics, leggete Mark Lilla, L’identità non è di sinistra), e di ciò che è rimasto di non trumpiano nel partito repubblicano (pochissimo).

Ciascuno di noi potrebbe, in teoria, crearsi un proprio social network. Tuttavia servono tanti soldi, milioni di utenti per partire, server e connettività dove archiviare il tutto; Trump possiede tutto questo. E poi possiede anche un altro vantaggio: come qualsiasi influencer potrà mettere a reddito il proprio capitale reputazionale incassando un sacco di soldi.
Questa vicenda in realtà serve inoltre a riflettere sulla proliferazione di reti proprietarie, chiuse, identitarie.
Che in tutto ciò, poi, Trump spanda notizie false, nel recinto sicuro nel proprio network privato, beh, l’abbiamo detto molte volte, questo è un elemento imprescindibile del presente che abitiamo.

Ricordatevelo prima di andare a spiegare sotto il commento di qualcuno, in un social network, che che le cose non stanno così, che la verità è un’altra… Ricordatevelo, semmai è la nicchia ad essere un’altra.

(Disobbedienze su Telegram 3/3)
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2022-01-10 23:48:09 Mi faccio un social network tutto mio (segue)

Uscito dalla porta Trump è rientrato dalla finestra delle techno-corporation che hanno sì bandito l’ex presidente come figura politica, ma non come inserzionista. Non hanno mai smesso, infatti, di accettare le banconote inodore dei suoi supporter in pubblicità. FacebookGoogle hanno venduto ai comitati di azione politica che sostengono Trump più di 2 milioni di dollari in annunci, durante l'ultimo anno. E il Comitato nazionale repubblicano ha speso più di 3,5 milioni di dollari in annunci su Facebook per fondi pro Trump.
Non è difficile immaginare che si tratti anche di advertising utile a informare i seguaci delle mosse relative al nuovo social, o magari a fare lead generation, come si dice. E cioè pubblicità utile a individuare contatti interessati a un prodotto, utile ad acquisire indirizzi mail ai quali spedire newsletter che danno notizia delle attività politiche di Trump.
Secondo il Wall Street Journal l’ex presidente ha a disposizione oltre 50 milioni di indirizzi mail.
Sono pochi?
Sono tanti su una popolazione di 330 milioni di abitanti?
Di sicuro sono numeri più che sufficienti a fare politica, anzi rappresentano una dote essenziale per ipotecare qualsiasi futura mossa del partito repubblicano nei prossimi anni. Com’era largamente prevedibile, aver cacciato Trump dalle piattaforme non è servito a niente, se non alle sole techno-corporation come mossa di pubbliche relazioni di fronte alla nuova amministrazione Biden.

(Disobbedienze su Telegram 2/3)
137 views20:48
Aprire / Come
2022-01-10 23:46:05 Mi faccio un social network tutto mio

Giusto un anno fa Donald Trump veniva bandito da tutti i social network, in tutto il mondo. Dopo l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio, Facebook, Instagram, Twitter e YouTube cancellavano, uno dopo l’altro, gli account dell’ex presidente degli Stati Uniti.
Trump, che fin lì era stato una specie di super influencer da 150 milioni di follower, sommando le diverse piattaforme, diventava un reietto. Senza voce, senza volto, senza possibilità di interagire con la sua base. Nonostante la quantità di soldi versati in pubblicità a Big Tech, veniva bannato allo stesso modo di un utente qualsiasi che ha pubblicato una foto proibita, dopotutto il 6 gennaio del 2021 Trump era di fatto un utente quasi normale. Al solito i cuor di leone della Silicon Valley intervengono sempre dopo.
Non dimentichiamo che, come Obama prima, i social network hanno svolto un ruolo essenziale nella sua vittoria. Senza una precisa strategia digitale egli non sarebbe diventato il 45° presidente degli Stati Uniti d’America.
Ma poi, dopo il ban o meglio dopo il deplatforming, cosa è accaduto?
In un articolo su Disobbedienze di un anno fa mettevo in fila alcune considerazioni che sono, in buona parte, ancora valide.
Ai social network non è accaduto nulla: non hanno perso influenza, potere, capitalizzazione in Borsa e nemmeno utenti; sono solo - ovviamente - calate in maniera drastica le menzioni dell’hashtag #trump.
Ma per lui, per the Donald com’è andata?
Trump ha ricostruito la sua presenza digitale proprio a partire dall’azione coordinata, e tardiva, ai suoi danni di tutte le piattaforme, messa in opera un anno fa. Egli si è dipinto, in questo ambito, come una specie di vittima della censura, una vittima del potere delle techno-corporation. E poi ha continuato a raccontare la sua verità, quella del furto delle elezioni e intorno a questi temi ha allestito una riserva di seguaci.
Riserva che non è per niente angusta.
Lo scorso ottobre, Trump ha annunciato la creazione di un suo social network privato ma più che mai politico: «tutti mi chiedono perché qualcuno non resiste a Big Tech? Bene, noi lo faremo presto!». Serviva uno spazio digitale dove dire quello che vuole, quando vuole e a chi vuole, senza sottostare a nessuno.
Pazienza per Facebook e Twitter.
Il Trump Media & Technology Group, la società che sta dietro alla nuova piattaforma, ha dichiarato che creerà un network chiamato Truth Social (la verità come brand, come marchio registrato). L’applicazione comparirà negli smartphone dalla fine di febbraio.

(Disobbedienze su Telegram 1/3)
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2022-01-06 15:10:34 È impossibile finire di leggere questo articolo (segue)

Hari ha intervistato il professor Joel Nigg, tra i massimi esperti di problemi di concentrazione dei bambini, il quale ha spiegato che stiamo sviluppando «una cultura patogena dell’attenzione, un ambiente in cui la concentrazione prolungata e profonda è più difficile per tutti noi». Già il termine “cultura dell’attenzione” mi pare un eufemismo.
Davvero un’impresa arrivare alla fine di questo articolo. Ma ci siamo quasi.
La verità è che, spesso, giungere alla conclusione di qualcosa “qui dentro” è questione di fortuna. Anche perché tutto è organizzato e pensato perché non possa mai avere fine, “qui dentro”: potrei consultare TikTok, 24 ore su 24, fino al giorno della mia morte, senza aver esaurito minimamente i contenuti prodotti nel social network.
Earl Miller del MIT ha spiegato ad Hari un meccanismo noto da un pezzo (ne parla Nicholas Carr in “Internet ci rende stupidi?” testo del 2010), e cioè quello che sta alla base delle critiche al cosiddetto multitasking. Ogni volta che pensiamo di svolgere due compiti insieme, in realtà passiamo da un compito all’altro, alterniamo e distribuiamo la nostra attenzione un po’ al primo e un po’ al secondo: questo semplice passaggio implica un costo cognitivo.
Il prezzo del cambiamento è quello che si definisce the switch-cost effect. «Il tuo cervello deve ogni volta riconfigurarsi quando passa da un compito all'altro. Perché devi ricordare cosa stavi facendo prima e ricordare anche cosa pensavi. Quando ciò accade, le ricerche mostrano che le tue prestazioni diminuiscono. Sei più lento», dice Miller.
La disattenzione è un’immane perdita di tempo, a volte una perdita di altro: di informazioni, di pensieri altrui, di buone idee, di lettere che scorrono sotto i nostri occhi e di cui ricordiamo, da subito, ben poco.
Ancora una volta l’essere umano (ne parlavamo qui su Disobbedienze a proposito della distrazione in campo lavorativo), è abbandonato di fronte a questa situazione. È completamente solo.
A chi ci possiamo rivolgerci quando siamo in pena per la nostra capacità di concentrazione?
L’unica cosa che l’uomo può fare, che può pensare di fare, è spegnere il telefono, disattivare le notifiche: resistere o ignorare questo problema. Il sistema, però, va avanti. C’è una metafora interessante che propone Hari: è come utilizzare la maschera antigas per ovviare al problema dell’inquinamento: non serve a niente. Forse non serve a niente nemmeno mettere in fila lettere affinché si compongano in parole. Non solo qui dentro, in assoluto, direi, ma questo è tutto un altro discorso.

Ti ringrazio se sei arrivato fin qui.
Ho cronometrato, e servivano più di 5 minuti: sono tantissimi.

(Disobbedienze su Telegram 3/3)
273 views12:10
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2022-01-06 15:10:07 È impossibile finire di leggere questo articolo (segue)

Scrivo su Disobbedienze perché qualcosa resti appicciato, non perché sia letto. Si possono appiccicare sulla pelle molte cose, non solo sensazioni, ma immagini o anche parole, pensate a una decalcomania, a un tatuaggio che scolorisce col tempo. Qui tutto scolorisce in fretta.
Dico che non si può leggere su uno smartphone così come non si può scrivere - proverbialmente - sul bagnasciuga. Eppure, si dirà, il verbo è lo stesso, certo, ma l’azione abita universi differenti. Parliamo di un altro sistema solare, di altre coordinate spazio temporali, non metaversi ma multiversi. In un altro universo leggiamo un romanzo, un saggio, “qui dentro” guardiamo comporsi parole su uno schermo: capiamo tutto, ci emozioniamo molto, tratteniamo poco, ci distraiamo in fretta (se volete approfondire fate riferimento a Maryanne Wolfe).
Se hai resistito, e adesso pensi al tono facilmente provocatorio di queste mie parole, ti starai chiedendo dove voglio andare a parare. Non sto provocando, semmai esalto la superficie lucida su cui tu guardi queste lettere (non sto già più utilizzando il verbo leggere). Sfrutto il modo in cui la superficie, e le applicazioni che la abitano e su cui le lettere scorrono, è stata progettata.
Se provocassi, se facessi polemica, se fossi più caustico, se polarizzassi come si dice con un verbo ormai inflazionato, tutte cose che evidentemente non so fare bene e non voglio fare, il risultato sarebbe migliore. Conflitti verbali. Solo verbali, perché null’altro è concesso qui dentro se non articolare parole e immagini che scoloriscono in breve tempo. Conflitti che accendono la nostra attenzione, vibriamo di qualcosa: di indignazione o commozione, sentimenti che durano poco perché subito la nostra attenzione, e con essa l’indignazione e la commozione, si sfibra, svanisce; e noi torniamo a essere distratti, torniamo a volgere la nostra impalpabile attenzione ad altro. Ci concentriamo - il verbo come vedremo è davvero fuori luogo - su altro.
Non so a quante notifiche tu abbia dovuto resistere, a quante notifiche interiori (ne abbiamo parlato qualche settimana fa) hai dovuto dire di no, a quale tentazione del talismano hai dovuto resistere, ma se l’hai fatto e sono passati più di 65’ - sessantacinque secondi - hai portato a casa un buon risultato.
Scrive Johann Hari in un’anticipazione del suo volume dedicato all’attenzione rubata, Stolen focus, why you can’t pay attention, sul Guardian, che uno studio su un gruppo di «studenti universitari ha scoperto che sono in grado di concentrarsi su un solo compito per 65 secondi. Una diversa ricerca sugli impiegati ha evidenziato che si concentrano in media solo per tre minuti».
Hai superato i tre minuti? Oppure sei rimasto nei sessantacinque?
Se sei arrivato fin qui è già molto. Un altro colpo col pollice, non un movimento consapevole, è come sbattere le ciglia, un rilesso, la natura, dicevo un altro tap e passerai alla terza e ultima parte dell’articolo, purché tu non ti distragga proprio ora…

(Disobbedienze su Telegram 2/3)
270 views12:10
Aprire / Come
2022-01-06 15:09:04 È impossibile finire di leggere questo articolo

Riuscirai a leggere fino in fondo questo breve articolo?
Riuscirai a non distrarti?
Penso che già scrivere “qui dentro” sia, di per sé, una provocazione e un'assoluta presunzione. Leggere potrebbe addirittura rappresentare un oltraggio.
Provocazione di fronte a qualcosa di più forte: più delle mie parole conta il potere distrattivo dello spazio in cui le leggi: lo smartphone e le applicazioni che lo abitano.
Presunzione: ritengo che le mie parole possano interessare, suscitare curiosità e… attenzione. (All’attenzione arriveremo tra poco).
Come posso soltanto pensare di scrivere una cosa qui dentro e lasciarla in balia di tante, troppe, tentazioni digitali? Mentre tu leggi una notifica potrebbe allontanarti esattamente in questo punto, e allora addio articolo.
Lo smartphone potrebbe vibrare e tu abbandoneresti subito o poco più avanti.
Potresti lasciare per strada senza sapere come andrà a finire l'articolo. Sono meno importanti le mie parole di quel che chiede, o pretende, la notifica. È un’ipotesi o la realtà: la tua attenzione è richiesta per un fatto, per un bisogno, per una necessità reale oppure la notifica arriva perché un'applicazione, dopo un po’ che non la usi, invia notifiche affinché tu la riattivi e ricominci a usarla.
E comunque anche se la notifica si rivelasse cosa da poco, finiresti per chiederti: «oddio cosa stavo leggendo?».
Con molta probabilità passeresti su Instagram, o su TikTok se sei più giovane, su Facebook se hai la mia età, se invece speri nelle virtù salvifiche del personal branding andresti a pascolare su LinkedIn, abbandonando Telegram, salvo poi ritornarci in una sorta di nomadismo circolare tra le applicazioni. Le mie parole sfumerebbero in breve, non ne conserveresti memoria perché magari dovevi rispondere a un messaggio, fornire una risposta a un’altra risposta su Whatsapp, in una conversazione iniziata stamattina. Cose che si perdono nel tempo, nell’eterno presente digitale.
Se invece, miracolosamente, ricordassi che stavi leggendo questo post, dovresti ammettere con me, e con te stesso, che è tempo di coprire con un panno la copertina di Se una notte d’inverno un viaggiatore, e dire che no, nessuno può più fare quello che chiedeva Italo Calvino: non è più il tempo del raccoglimento, né della dedizione alla lettura. Altro che «allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto». Qui non c’è più spazio per tutto questo. Un’attitudine perduta per milioni di umani, come me e te che scorri queste lettere, e che resiste in pochissimi tra noi chissà ancora per quanto.
Non puoi nemmeno ammettere che «stai per cominciare a leggere» non un libro ma un post, perché probabilmente questo presunto leggere costituisce, in realtà, la prosecuzione di un’altra cosa, di un altro comportamento interrotto e ripreso, e l’inizio di un terzo comportamento: non leggere, più spesso vedere, ancora più spesso un infravedere. Muovere le pupille sullo schermo, seguire parole, immagini che appaiono e scompaiono, dal basso verso l’alto, a volte questa cosa si chiama doomscrolling o semplicemente scrolling. Accompagnato dal gesto del nostro pollice opponibile che scorre, sempre sullo schermo, e che restituisce la sensazione di stare facendo una cosa. Pensiamo davvero di compiere un’azione che tuttavia è un’azione innominabile: non è vedere e non è nemmeno ascoltare, ed esce - naturalmente - anche dall’orbita della lettura. Pure se ne possiede in apparenza tutte le caratteristiche. È un discorso lungo, ma anche solo chiamare questa cosa, “qui dentro”, lettura mi dà ai nervi. Come si fa a leggere “qui”: inventate un nuovo nome, per favore.

(Disobbedienze su Telegram 1/3)
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