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Gli ultimi messaggi 8

2021-09-18 16:20:04 Il lato oscuro di Instagram

«Il 32% percento delle adolescenti ha affermato che quando si sentivano male per il proprio corpo, Instagram le faceva sentire peggio».
«I confronti su Instagram possono cambiare il modo in cui le giovani donne si vedono e si descrivono».
«Noi peggioriamo i problemi di immagine corporea per una ragazza adolescente su tre».
«Gli adolescenti incolpano Instagram per l'aumento del tasso di ansia e depressione. La reazione è spontanea e coerente in tutti i gruppi».
Queste parole sono estratte da una serie di ricerche condotte internamente da Facebook, e rese pubbliche dal Wall Street Journal in una inchiesta a puntate dedicata al gigante dei social network.
Si tratta di studi realizzati da ricercatori, (psicologi, data scientist e informatici) con l’obiettivo di capire se, e come, Instagram influisca sugli utenti, e soprattuto per un «approfondimento sulla salute mentale degli adolescenti».
Il quadro che emerge è drammatico. E l’aggettivo non è esagerato.
I ricercatori ammettono che mentre TikTok si basa sulle prestazioni (io non sarei così ottimista), e Snapchat «mantiene l'attenzione sul viso», Instagram si concentra molto di più sul corpo e sullo stile di vita: «il confronto sociale è peggio su Instagram». L’attenzione ad alcuni aspetti è esasperata proprio dalle funzioni che la piattaforma abilita. La sezione Cerca, chiamata prima Esplora (e oggi anche i suggerimenti dei Reel inseriti nel feed) va proprio in questa direzione. I ricercatori di Facebook sottolineano che alcuni «aspetti di Instagram si esasperano per creare una tempesta perfetta».
Per fortuna gli effetti del cosiddetto «confronto sociale negativo» non si producono in tutti gli utenti. Eppure una larga percentuale, all’incirca 1/3, mostra problemi seri.
Non solo.
Questi ragazzi che pure vorrebbero distaccarsi dalla piattaforma, non riescono a farlo, non hanno un sufficiente «autocontrollo» per gestire il distacco dal social network. Dopotutto la responsabilità non è loro. Tutte le piattaforme sono progettate per massimizzare il tempo di permanenza degli utenti al loro interno. Lo studio riporta le parole di una ricercatrice: «spesso i ragazzi si sentono “dipendenti” e sanno che ciò che vedono è dannoso per la loro salute mentale, ma si sentono incapaci di fermarsi».
Il Journal riporta il commento di un docente di psicologia alla San Diego State University, Jean Twenge, il quale afferma che si tratta di forme di «depressione a livello clinico che richiedono un trattamento medico. E di forme di autolesionismo che portano le persone in pronto soccorso».
Questi documenti hanno un valore essenziale.
La dimensione competitiva e performativa del social network genera effetti devastanti su una percentuale significativa di adolescenti. E corrompe e allo stesso ricompone, in modo inedito, un rapporto già molto problematico, quello col proprio corpo.

(Disobbedienze su Telegram 1/2)
185 views13:20
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2021-09-15 20:46:00 La lista dei VIP digitali (segue)

Tutte le piattaforme digitali, piccole e grandi, globali o nazionali, funzionano a partire da formule scritte da umani, con i pregiudizi degli umani, e gestite con soluzioni escogitate da umani. In alcuni casi il pregiudizio è ancora più difficile da individuare e sradicare perché risiede in un codice, un software, ipercomplesso e segreto. Per cui possiamo accorgercene solo a cose fatte, davanti ad effetti negativi.
Infine credo sia legittimo osservare un ulteriore effetto di questa inchiesta e cioè il capovolgersi di senso dei dibattiti sulle élite messe in crisi dalla democrazia diretta digitale. L’inchiesta rivela che esistono élite nello spazio fisico che si ritrovano ad essere élite anche nello spazio digitale. Possiamo pure dubitare della consapevolezza di molti di costoro rispetto all’ammissione in un club tanto esclusivo: non credo Neymar sappia di appartenere all’elenco dei privilegiati, ma di fatto egli conta sul fatto che può scommettere sulla sua eccezionalità dentro Instagram, derivante dalla immane consistenza del suo pubblico e dalla sua notorietà, e che tutto ciò lo rende superiore agli utenti normali. Alla fine il social network che ha reso il mondo piatto, e doveva rendere orizzontale la comunicazione e le relazioni tra le persone, ha riprodotto nella sua geografia le stesse gerarchie presenti nel mondo fisico.
Non credo che Facebook risolverà in qualche maniera la vicenda della white list, un po’ negherà, un po’ continuerà a spiegare che serve a tutelare alcune persone che sono a rischio di attacchi malevoli, un po’, come sempre, farà finta di niente. E non credo nemmeno il social network sia la sola azienda a possedere un sistema e delle procedure del genere in ambito digitale. Anche Google, quindi YouTube, TikTok e LinkedIn conteranno su sistemi simili, semplicemente nessuno ancora ha trovato traccia delle loro white list.

Infine permettetemi uno scenario di pura fantasia: cosa potranno diventare le white list quando i social network costituiranno l’architettura portante del metaverso?
Se dovessimo, tra vent’anni, immaginare una rivoluzione all’interno del metaverso, una specie di crisi strutturale che investe le infrastrutture e le società, quindi rivolte digitali che nascono e si propagano in questo ambiente con velocità sorprendente, le white list serviranno a garantire uscite di sicurezza e fughe precipitose in carrozza dalla furia della folla. Saranno la dimensione plastica del privilegio all’interno di uno spazio virtualmente senza confini, che tuttavia periodicamente verrà scosso da conflitti e tumulti che ne scuoteranno le fondamenta, senza ovviamente farlo mai crollare.

(Disobbedienze su Telegram 4/4)
171 views17:46
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2021-09-15 20:45:03 La lista dei VIP digitali (segue)

La questione è semmai cosa sia diventata Internet nel frattempo. E come qualcuno ha trasformato un sogno di libertà in uno spazio feudale, un ecosistema controllato da una manciata di aziende nel mondo, che appartengono ai due paesi più importanti del pianeta.
Come può valere uno, un profilo Instagram che fa guadagnare all’azienda centinaia di milioni di dollari l’anno?
Come può valere uno, una pagina Facebook che investe in pubblicità milioni di dollari l’anno?
Come può, infine, valere uno il profilo di una deputata (ad esempio la democratica Elizabeth Warren) che vorrebbe limitare fortemente il social network e che quindi va monitorata da vicino?
Esistono 5.8 milioni di profili che non valgono uno e che non lo varranno mai.

In questa vicenda la dialettica tra le ragioni del mercato e quelle della libera espressione, tra quelle del lobbismo applicato al mercato e quelle della partecipazione, non prevede una sintesi equilibrata tra gli interessi in gioco.
Il potere della piattaforma deve confrontarsi con altri poteri per poter sopravvivere in condizioni di profittabilità. Confronto, conflitto che è sempre più paritetico, ma che non smette di essere tale. E sull’altare del primum vivere le grandi techno-corporation hanno dovuto sacrificare molti principi, a partire da quello della parità di accesso al social network da parte degli utenti.
Da questa considerazione se ne può trarre un’altra: tutte le volte che le white list sono applicate alla politica, a candidati o esponenti politici, il dibattito e i risultati elettorali sono viziati in partenza. E questo pregiudizio determina effetti a cascata: politici, sociali, elettorali, economici, finanziari.

(Disobbedienze su Telegram 3/4)
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2021-09-15 20:44:49 La lista dei VIP digitali (segue)

Il sistema funziona sia per la politica che per lo star system. La pratica, a dirla tutta, è di utilizzo corrente in molte aziende di servizi. Esistono white list in cui vengono inseriti i nominativi dei clienti VIP che possono creare problemi di pubbliche relazioni, e dunque di reputazione, in modo da poterli gestire in via prioritaria e con canali differenti.
Tuttavia, in questo caso, ci sono diverse considerazioni da fare.
Come può Facebook o Instagram rimuovere il profilo di Neymar senza incorrere in una rivolta dei suoi oltre 160 milioni di follower? Rivolta cui si aggiunge una fuga in massa verso un altro social, tipo TikTok, magari. E come poteva Mark Zuckerberg silenziare il presidente degli Stai Uniti in carica? E poi, come potrebbe ancora oggi giustificare l’azienda, di fronte ai propri azionisti, che account simili che generano conversazione, condivisioni, interazioni e dunque immani ricavi, possano essere cancellati allo stesso modo di un profilo qualunque?
Insomma torniamo alla frase di Orwell: tutti i profili Instagram sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
Le questioni relative alla reputazione e al business sono troppo ingombrati per poter essere dimenticate.
L’inchiesta del Journal conferma una considerazione evidente da molto tempo, e di cui spesso abbiamo parlato qui su Disobbedienze. E cioè che alcuni problemi, legati al discorso pubblico, all’odio, alla disinformazione, non sono problemi risolvibili dalla piattaforma, soprattutto se questa fa affidamento sull’algoritmo, anche perché risulta complicato immaginare un numero congruo di umani che possa controllare quasi 3 miliardi di utenti, per il solo Facebook.
La disinformazione e il discorso d’odio sono strutturalmente connessi all’esistenza di una piattaforma dove convivono e parlano e si informano miliardi di utenti. Ciascuno di essi è infatti un ipotetico portatore di interessi che contrastano con le norme standard della comunità di Facebook e Instagram.
L’algoritmo non riesce a risolvere questioni connesse alla veridicità su temi complessi, dalla politica alla religione alla salute. Serve sempre un intervento umano, e l’inchiesta del Wall Street Journal suggerisce che nemmeno questa soluzione lascia il social network indenne da conseguenze.

Ritengo però che questa vicenda possa essere interpretata con una ulteriore chiave di lettura. Stiamo assistendo al tramonto definitivo di un’idea che, per anni, ha avuto particolare successo: l’approccio di chi pensa sia possibile fondare democrazia, e rappresentanza a partire da una qualsiasi piattaforma. L’inchiesta del Journal conferma, senza appelli a questo punto, che qualsiasi presunta forma di disintermediazione è sempre stata una mediazione applicata da nuovi soggetti, da nuovi intermediari. Nuovi e più potenti intermediari, vorrei sottolineare. E di conseguenza va ribadito quanto sia sempre stato velleitario il concetto «dell’uno vale uno» quando è la tecnologia ad abilitare questa equivalenza.
Il principio di una democrazia diretta basata sulla tecnologia, sul web, è un sogno e un abbaglio, e comunque qualcosa di viziato in partenza.
Certo, Internet ha democratizzato il discorso pubblico, ha democratizzato alcune forme di conoscenza e ha concesso a molti, in quasi tutto il mondo, una tribuna da cui lanciare idee e proposte. Ma questo processo non può essere considerato una linea retta.

(Disobbedienze su Telegram 2/4)
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2021-09-15 20:44:34 La lista dei VIP digitali

Pensi che il tuo account di Instagram o Facebook sia uguale a quello di altri miliardi di utenti?
Che abbia le stesse funzioni, le stesse protezioni e debba seguire le stesse regole?
La risposta è no. Risposta secca, ma le cose stanno esattamente così.
E per rispondere partiamo dagli artisti che spesso hanno ragione in largo anticipo sui tempi. Quando George Orwell scriveva una frase, divenuta poi tra le sue più citate, e cioè che «tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri», non immaginava che avremmo potuta riferirla oggi a Facebook.
Orwell scriveva del potere, tanto ne La fattoria degli animali quanto in 1984, e i suoi romanzi vanno riletti oggi sia per la capacità di preveggenza, che per la capacità di lettura dei comportamenti umani.
Ci toccherà parlare di Facebook e Instagram per qualche giorno, credo. La responsabilità è del Wall Street Journal che ha pubblicato la prima, di una serie di inchieste, dedicate al social network fondato da Mark Zuckerberg. E già il primo articolo rivela una serie di pratiche non proprio in linea con quella che è sempre stata la missione dell’azienda: dare alle persone il potere di creare comunità e avvicinare il mondo.
Il giornalista Jeff Horwtiz ha rivelato che Facebook (e quindi anche Instagram e Whatsapp) utilizzano una pratica chiamata whitelisting, il cui nome in codice è XCheck. In sostanza l’azienda ha costruito nel tempo una lunga lista di utenti che possono sfuggire alle regole della comunità, alle regole che si è dato il social network. Si tratta di un elenco di quasi 6 milioni di persone, 5,8 milioni per la precisione, composto da politici, Donald Trump e suo figlio, ma anche la senatrice democratica Elizabeth Warren, star della musica, come Rihanna, o del calcio come Neymar.
Una lunghissima lista di VIP che elude le regole standard della comunità che valgono per ciascuno di noi. L’elenco era nato per proteggere alcuni account da azioni malevole ma si è presto trasformato in altro.
L’articolo fa una serie di esempi. Il più clamoroso è quello di Neymar che, qualche anno fa, dopo essere stato accusato di stupro da una donna, si è difeso in diretta rivelando la corrispondenza che aveva avuto con la sua accusatrice, ma anche il suo nome e cognome e alcune foto di lei nuda. Scrive Horwtiz che «la procedura standard di Facebook per gestire la pubblicazione di “immagini intime non consensuali” è semplice: eliminarle. Ma Neymar era protetto da XCheck». E così 56 milioni di persone hanno potuto vedere il video del calciatore che praticamente faceva revenge porn, prima che questo contenuto fosse poi rimosso.
Un altro esempio: quando, dopo una manifestazione di protesta per l’omicidio di George Floyd, Donald Trump scrisse «when the looting starts, the shooting starts», e cioè «quando cominciano i saccheggi allora si comincia a sparare», il social network avrebbe dovuto cancellarlo, ma anche Trump stava da anni nella white list. Pensate il sistema automatizzato che tenta di capire se un contenuto violi le regole del social network, aveva identificato il post dell’ex presidente in violazione delle norme, con un punteggio di 90 su 100. Il contenuto è rimasto al suo posto. Solo successivamente Trump è stato sospeso da Facebook per due anni. Ma quando non era più presidente, e perché aveva incitato alla rivolta contro il Campidoglio.
L’articolo del Wall Street Journal ha rivelato che, l’anno scorso, XCheck ha consentito ai post che violavano le regole sono di essere visualizzati almeno 16,4 miliardi di volte, prima di essere successivamente rimossi. Con buona probabilità Facebook considera questo il minore dei mali.

(Disobbedienze su Telegram 1/4)
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2021-09-11 10:30:32 Facebook e gli occhiali che registrano tutto (segue)

Questo prodotto ha come obiettivo quello di far fare un passo in avanti alle possibilità, prima ancora che alle funzioni per le quali è progettato. Sposta l’orizzonte dell’accettabile in avanti. Scrive Wired: «Andrew Bosworth, che gestisce i Reality Labs (responsabili dei Ray-Ban Stories), ha affermato più volte che l'azienda non vuole “sorprendere” le persone quando introduce nuove tecnologie». La finestra di Overton è un impiccio per la Silicon Valley di cui liberarsi con calma, ma in maniera inesorabile. Non è il metaverso, ma proprio perché bisogna arrivare al metaverso, da Facebook ci fanno capire che non c’è fretta.
Adesso i regolatori e i legislatori diranno qualcosa circa le questioni di riservatezza; eppure poco dopo verranno approvate norme, come per qualunque cosa riguardi la nostra convivenza con la tecnologia, norme che proveranno a farci coesistere in maniera appena più accettabile con la tecnologia, appunto.
Fino a ieri un simile paio di occhiali veniva utilizzato dalle spie, da agenti infiltrati, da giornalisti con la famosa telecamera nascosta, adesso lo possiamo comprare in rete. Fino a ieri la tecnologia, utilizzando la terminologia di Overton, sembra inconcepibile, estrema; però adesso che li vediamo in commercio, "dai sono solo un bel paio di Wayfarer", la troviamo accettabile; anzi direi quasi comoda e dunque ragionevole; ci mettiamo davvero poco a renderla clamorosamente diffusa in tutto il mondo; a quel punto la politica e le istituzioni devono solo trovare il modo di legalizzarla.
Un solo passaggio dell’attraversamento della finestra di Overton mi sembra convincente: gli occhiali sono ragionevoli perché oggi lo smartphone costituisce un ostacolo al nostro desiderio di registrare e fotografare tutto. Per vedere, fotografiamo; per osservare, riprendiamo; per ricordare, carichiamo sui nostri profili social. Questi occhiali ci facilitano i compiti, e sono certo che avranno un grande successo come regalo di Natale.

(Disobbedienze su Telegram 2/2)
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2021-09-11 10:29:46 Facebook e gli occhiali che registrano tutto

In apparenza solo un paio di Ray-Ban. In realtà sono il primo paio di occhiali sviluppato da Facebook: una tecnologia indossabile con estrema facilità. Non sono ingombranti come gli Oculus, sono arrivati in un momento storico differente rispetto a quando Google sviluppò i suoi Google glasses, arrivano in commercio da due aziende leader mondiali nei rispettivi settori (a differenza degli Spectacles di Snapchat), e infine sono in vendita a un prezzo accessibile, 299$. A partire da oggi.
Non sono occhiali progettati per la realtà virtuale e per la realtà aumentata. Sono semmai pensati per una funzione in apparenza più semplice, e lo dico subito, agghiacciante.
Il vero obiettivo dei Ray-Ban Stories è quello di poter creare contenuti video senza attriti, come dicono nella Silicon Valley.
Chi li possiede può scattare foto e video di qualsiasi cosa gli capiti sotto al naso, senza dover tirar fuori lo smartphone. Ecco perché si chiamano Stories: l’esito sono i social network, conseguenza naturale per un prodotto sviluppato da Facebook. La nostra personale acquisizione e narrazione passerà per questo oggetto di consumo, venduto a un prezzo accessibile per molti (non per tutti). Le fotocamere sono così piccole che bisogna farci caso per individuarle, così come la luce rossa che si accende quando si scatta una foto o si registra, sulle stanghette poi hanno posizionato 2 piccoli altoparlanti e anche 3 microfoni. Tanta tecnologia in pochi centimetri risulta, in effetti, sorprendente.
Il processo di allontanamento dello smartphone dalle nostre mani procede spedito. Le techno-corporation si impegnano per cancellare l’oggetto dalle nostre esistenze, e per farci vivere la tecnologia in una dimensione immateriale, sensoriale, attraverso la voce e la vista.
Il meccanismo è semplice: per fotografare qualcosa lasciamo il telefono in tasca, tocchiamo gli occhiali oppure diciamo Ehi Facebook (il che suona abbastanza grottesco), e l’immagine compare nell’applicazione. Gli occhiali la trasmettono al telefono. Poi, con calma, a casa, ritocchiamo e pubblichiamo.
Per adesso non pare possibile trasmettere qualcosa in diretta dagli occhiali, ma insomma siamo arrivati, manca poco a questo traguardo. Il mondo in soggettiva, senza difficoltà e senza attriti (il famoso termine feticcio frictionless) sembra a portata di mano. Chiunque si trovi nei paraggi di un utente che indossi i Ray-Ban Stories rischia di finire nelle sue Stories, di diventare, suo malgrado, protagonista di un video o una foto, senza aver nemmeno la possibilità di saperlo, di scansarsi o rifiutarsi, di dire: Ehi Facebook io non voglio! Finiremo per essere tutti volti riconosciuti, o in attesa di riconoscimento, e poi etichettati (taggati) dall’intelligenza artificiale di Facebook. Prima gli oggetti, poi gli esseri umani, tutto è digitalizzato, tutto è datizzato, tutte le cose e gli umani copiati dentro qualche data center.
Problemi di privacy giganteschi. Immani. Ma problemi, quelli di privacy, che non interessano più a nessuno.

(Disobbedienze su Telegram 1/2)
418 views07:29
Aprire / Come
2021-09-11 10:29:19
I Ray-Ban Stories
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2021-09-08 21:23:44 Brunetta e la complessità dello smart working (segue)

• Se lo smart working non ha funzionato, quasi sempre, la responsabilità è stata delle persone (dei dirigenti, dei manager), perché la modalità organizzativa ha avuto effetti, come già sottolineato, enormi sul piano della produttività e anche sul senso di isolamento delle persone (su questo ultimo aspetto preferisco ripetermi). Serve un gigantesco programma di formazione, a partire dai dirigenti.
• La digitalizzazione, da un lato, è una specie di feticcio, dall’altro consiste in un lungo elenco di cose da fare. Feticcio nel senso che serve come vessillo da sventolare sull’altare della modernizzazione, ma se nessuno la riempie di contenuti rimane un feticcio che sventola e basta. Mi piacerebbe molto poter andare a lavorare al Sud, ma se riempiamo di contenuti la parola digitalizzazione dobbiamo ammettere che, per andare a lavorare al Sud, servono infrastrutture che lo consentano. E cioè connessioni in fibra ottica per tutto il paese, soprattutto per il Sud.
• Esistono molte aziende, negli Stati Uniti, che hanno scelto di essere completamente remote, si definiscono “remote first”. Il che vuol dire che le persone «vivono la stessa esperienza professionale da qualsiasi luogo abbiano deciso di lavorare». Capite da voi la distanza siderale dalle parole di Brunetta.
• Il tema dell’isolamento è una cosa seria. In “Lavorare (da casa) stanca” ho fatto qualche proposta: dovremmo cominciare a pensare e a realizzare spazi di coworking di prossimità nei quartieri.
• Anche il tema del tracimare dei tempi di lavoro nei tempi non lavorativi è un tema immane. Qualche giorno fa ne ho scritto (https://bit.ly/3m9waLc) perché ritengo che il cosiddetto “diritto alla disconnessione” sia un diritto debole di fronte a una tecnologia forte.
• Uno degli ostacoli più seri sulla strada di un vero lavoro da remoto è una concezione fantozziana delle funzioni dirigenziali. I manager sono «un costrutto sociale, oltre che organizzativo», e molti di loro sentono di perdono potere e il valore all’interno delle aziende, quando non hanno dipendenti da controllare a vista. Ricordo una splendida scena di “A che punto è la notte” di Fruttero e Lucentini in cui un grosso dirigente FIAT saliva sul terrazzo del Lingotto a dare da mangiare ai piccioni, con una lunga fila di sottoposti dietro, al suo servizio. La contrarietà allo smart working è spesso una contrarietà feudale e psicologica. Feudale perché svaniscono queste cerimonie e l’esibizione di un potere fin qui visibile, psicologica perché da questo discende un feroce appannamento dell’ego.
• Per molti lavorare in casa, durante i lockdown, è stato un incubo, una sofferenza indicibile. Dobbiamo riconoscere la possibilità di accedere allo smart working su base volontaria.
• Certo che servono regole. Ma prima delle regole serve una profonda conoscenza dell’ambiente che abilita lo smart working, e cioè dell’ecosistema digitale nelle sue declinazioni. Prima di parlare di smart working, sarebbe opportuno approfondire i temi legati alla Zoom fatigue, al Burn out da troppe videochiamate, al rischio di isolamento, alla guerra all'attenzione.
• In Italia i lavoratori che possono accedere allo smart working sono circa 1/3 della forza lavoro. Serve un enorme sforzo di riconoscimento reciproco tra chi potrà lavorare in questo modo e gli altri. Senza un passaggio di questo tipo, tutto sarà inutile. Alimenteremo l’ennesima polarizzazione di cui non abbiamo bisogno. E le parole di Brunetta, ahimè, in questo senso non aiutano affatto.

(Disobbedienze su Telegram 2/2)
364 views18:23
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2021-09-08 21:20:41 Brunetta e la complessità dello smart working

Lo smart working non ha alcun bisogno di avvocati d’ufficio e nemmeno di accusatori d’ufficio. La crociata che sta conducendo Renato Brunetta rientra nelle più tradizionali categorie della politica: egli sta parlando a una quota del suo elettorato che intende rassicurare, e poi intende trattare da una posizione di forza rispetto ai sindacati su questo tema. Insomma fa tattica. Non dico che non vada preso sul serio, è pur sempre un ministro della Repubblica, ma penso le sue parole vadano collocate nella giusta prospettiva, e gli vada attribuito il giusto peso. Per adesso sono parole, vedremo quali saranno gli atti conseguenti.
Anche perché il cosiddetto smart working, che in realtà è remote working, un lavoro da un posto diverso dall’ufficio, per lo più da casa, è un fenomeno molto complesso. Assistere a una crociata pro o contro questa modalità organizzativa è ridicolo e anche un po’ penoso. Siamo talmente abituati alla logica binaria, mi piace vs. non mi piace, da non comprendere l’articolazione di un fenomeno che, rivoluzionando una parte consistente del mondo del lavoro, influisce sulla nostra vita privata, relazionale, sui tempi e sugli spazi sia pubblici che privati, sulla conformazione futura delle città, sulla relazione tra città, territori e comuni più piccoli. Insomma un fenomeno di proporzioni inaudite che può mutare significativamente il modo in cui viviamo. Quindi affermare come fa il ministro che «il lavoro agile può servire nell'emergenza ma non può essere il lavoro del futuro, proiettarlo nel futuro mi sembra un abbaglio», significa non conoscere il merito, e avere un’idea antica del futuro.

Alcune brevi considerazioni:
• Tutte le ricerche indicano che il lavoro da remoto aumenta produttività e senso di isolamento dei dipendenti.
• Oggi la sfida è quella di cominciare a pensare al cosiddetto lavoro ibrido, molto più complesso del semplice lavoro da remoto, e cioè quel lavoro che alterna casa e ufficio. Sapevamo lavorare dall’ufficio, abbiamo imparato a lavorare da casa, adesso dobbiamo imparare a lavorare un po’ qui e un po’ lì. E non è per niente facile: che senso ha andare in ufficio per fare solo riunioni in videocall? Come si fa a mantenere un sano livello di socialità che è un elemento essenziale della vita lavorativa? Come potranno difendere i propri diritti i lavoratori che non sono mai entrati in ufficio? Sono tanti gli interrogativi e procedere per crociate, come detto, non ha alcun senso.
• Molte grandi aziende nel mondo stanno passando al remote working sulla spinta di richieste dei lavoratori e di significativi risparmi. Anche le grandi compagnie si pongono il tema della cosiddetta cultura aziendale, che diventa un oggetto sfuggente per chi non mette mai piede nella sede della società.
• Ritengo che sempre più aziende utilizzeranno la possibilità di fare smart working su base annuale, per un tempo significativo, come una specie di incentivo. Vieni a lavorare con noi da dove vuoi per 3 mesi, per 6 mesi (questa cosa è già visibile in molti annunci su LinkedIn). Ecco di fronte a una Pubblica amministrazione che rifiuta lo smart working, un candidato - a parità di condizioni economiche e modalità organizzative - sceglierà sempre il privato, se questo consente di lavorare da remoto.

(Disobbedienze su Telegram 1/2)
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