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Cronache Ribelli

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Cronache Ribelli è un progetto narrativo di rinnovamento della narrazione storica. Raccontiamo la storia degli ultimi.
📚Sito e shop: cronacheribelli.it
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Gli ultimi messaggi 4

2022-02-28 16:02:19 Il 28 febbraio 1969 alcuni militanti delle Pantere Nere si presentarono armati presso il Campidoglio di Olympia.
Il loro obiettivo era denunciare l’entrata in vigore di una legge che aveva come scopo quello di disarmarli. Dopo numerosi omicidi da parte della polizia nei confronti di neri, attivisti e non, il Black Panther Party costituì gruppi armati di autodifesa. Com’è noto, la legge americana permette a tutti i cittadini di possedere armi e alcuni stati davano - e danno ancora oggi - la possibilità di girare armati. Chiaramente questo però sembrava non poter valere per i membri delle Pantere Nere che quel giorno, dopo aver scaricato i loro fucili davanti alla polizia locale, si posizionarono sul Campidoglio e rilasciarono una dichiarazione per denunciare una legge dello Stato di Washington fatta su misura per impedirgli di portare armi.
Alla fine la legge passerà senza alcuna opposizione della National Rifle Association e dei produttori di armi. Evidentemente il secondo emendamento era sacro solo per coloro non erano neri.

Per approfondire suggeriamo No Justice No peace, che trovate nella nostra selezione di libri a questo link:

https://bit.ly/3ppNI6J
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2022-02-28 16:02:12
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2022-02-27 20:18:57 I FRATELLI OVITZ, TORTURATI PER MESI DA MENGELE, INTERESSATO A SCOPRIRE LE ORIGINI DEL LORO NANISMO DA CONTRAPPORRE ALLA PUREZZA DELLA RAZZA ARIANA

Purtroppo ci sono molte vicende di torture e violenze da raccontare su Auschwitz ed in particolare sulle “ricerche” condotte dal dottor Mengele e dai suoi collaboratori su alcuni degli internati. Difficile trovarne alcune che abbiano un lieto fine, ma la storia dei fratelli Ovitz, almeno in parte, è una di quelle.
Dei dieci figli di Shimson Eizik Ovitz, un rabbino di origine romena, ben sette erano affetti da pseudoacondroplasia, una malattia genetica che comporta una delle forme più comuni di nanismo. Dopo la prematura morte del padre tutti i figli iniziarono a girovagare nell’Europa dell’Est, recitando in esibizioni ambulanti e poi unendosi a veri e propri circhi. Come protagonisti dei “freak show”, gli spettacoli nei quali venivano (e in parte vengono ancora) fatti esibire i cosiddetti “fenomeni da baraccone”, riuscirono, negli anni ‘30, a raggiungere una certa notorietà. Chiaramente la loro condizione fisica li esponeva costantemente allo scherno e alla ghettizzazione, ma questo era ancora nulla rispetto a quello che li aspettava.
Quando erano ormai all’apice della carriera e avevano una propria compagnia nota come “Lilliput”, scoppiò la guerra mondiale. A lungo, celando le loro origini ebraiche, riuscirono ad evitare arresto e deportazione, ma alla fine, nel maggio del ’44, il loro destino fu segnato. Presi in una retata, furono portati direttamente ad Auschwitz.
Qui vennero subito notati dal personale addetto allo smistamento, che li indirizzò direttamente da Josef Mengele. Quest’ultimo apparve particolarmente interessato ai fratelli, e decise di utilizzarli per esperimenti speciali. Comincia così il calvario degli Orvitz che vengono separati dagli internati comuni e godono di alcuni privilegi, come abiti e latrine personali, ma devono sottostare a violenze continue. Violenze interminabili perché Mengele è ben attento a non uccidere quelli che diventano i suoi giocattoli preferiti.
Prelievi di sangue e di midollo, capelli e denti asportati, liquidi iniettati nei loro corpi e nell’utero delle ragazze Orvitz, acqua bollente e gelida nelle orecchie; brutalità che si fermano solo quando i malcapitati stanno per morire soffocati dal proprio vomito o dal proprio sangue. Oltre al calvario fisico i fratelli devono anche subire quello psicologico; Mengele li costringe ad esibirsi, anche nudi, per sé e per gli ufficiali delle SS.
Una Via Crucis, durante la quale videro nani come loro essere uccisi e perfino bolliti, che terminò solo con la liberazione del campo, nel gennaio del ’45.
Nel frattempo uno dei fratelli era stato ucciso durante un tentativo di evasione.
Gli altri tornarono prima in Romania e poi si trasferirono in Israele. Furono tra i pochi a sopravvivere agli esperimenti di Mengele.
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2022-02-25 21:11:07
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2022-02-24 16:42:28 MARCO LOKAR ERA UNA PROMESSA DEL BASKET NEGLI STATI UNITI. FU COSTRETTO A TORNARE IN ITALIA IN SEGUITO A NUMEROSE MINACCE SEGUITE AL SUO RIFIUTO DI GIOCARE CON LA BANDIERA USA SULLA MAGLIA DURANTE LA GUERRA DEL GOLFO

Era forte, Marco Lokar. Non era altissimo, almeno per gli standard del basket: 1 metro e 87. Ma aveva talento da vendere, e lo stava dimostrando su entrambe le sponde dell’Atlantico. Nato a Trieste da padre sloveno, iniziò a farsi notare nello Jadran, dopo un anno passato da giovanissimo negli USA. Nel 1990 decise di ripetere l’esperienza e si trasferì nel New Jersey, giocando per la squadra del college locale, i Seton Hall Pirates, e al contempo studiando marketing. Sul campo si guadagnò ben presto il posto da titolare: in una gara contro Pittsburgh arriverà a segnare ben 41 punti.
Era forte, Marco, sul campo ma anche fuori. Sarà perché ha vissuto a Trieste da mezzo sloveno. Sarà perché ha ideali forti ed è coerente con i suoi principi. Quando si ritroverà di fronte la possibilità di una carriera brillante da pagare, però, con il tradimento di quei principi, non esiterà un istante per prendere la sua decisione.
La sua storia si intreccerà infatti con la storia di quegli anni. È il 1990, e l’Iraq, fino a pochi mesi prima foraggiato da USA ed Europa in funzione anti-iraniana, è il nuovo nemico pubblico. L’invasione del Kuwait è seguita in pochi mesi dall’intervento di una coalizione a guida statunitense. E come spesso accade nella guerra moderna, il fronte interno è importante almeno come quello dei campi di battaglia. Anche il mondo dello sport deve fare la sua parte: tutti gli atleti che giocano negli USA devono giocare con una bandiera a stelle strisce sulla maglia.
Anche Marco, che è italiano. Anche Marco, che non sopporta quella ipocrisia.
E allora dice no. Anzi, per l’esattezza afferma che accetterebbe "di mettersi addosso la bandiera USA solo insieme alle altre 28 della coalizione… e anche quella irachena”.
Apriti cielo.
Perderà quasi subito il posto da titolare nel quintetto. Durante una partita al Madison Square Garden, a New York, Marco viene sommerso dai fischi nonostante non sia neanche in campo. Ma il peggio deve ancora venire: aveva iniziato a ricevere minacce telefoniche da parte di reduci di guerra e persone comuni. Minacce rivolte anche alla sua compagna, al tempo incinta. Nessuno gli chiese di spiegare il suo gesto, nessuno gli concesse un’opinione differente. Solo fischi, odio e minacce. Allora prende la decisione più difficile: nonostante la sua borsa di studio duri ancora per altri 4 anni, Marco decide di rientrare in Italia, dove continuerà a giocare a basket per diversi anni.
Rientrò senza la carriera nell’NBA da lui sognata, ma con la dignità di chi non era disposto - da straniero - ad assorbire passivamente la retorica nazionalista e guerrafondaia del paese ospitante.
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2022-02-23 22:37:54 MEDGAR, ATTIVISTA E REDUCE DELLA GUERRA, VENNE FREDDATO CON UN COLPO ALLA SCHIENA. MA IL GOVERNATORE DEL MISSISSIPPI FECE VISITA AL SUO ASSASSINO E NON ALLA FAMIGLIA

22 chilometri.
Era questa la distanza che, ogni giorno, il giovane Medgar Evers percorreva per andare a scuola. Lo voleva fortemente, Medgar, quel diploma. Voleva dimostrare che gli afroamericani come lui non erano cittadini di seconda classe. E allora percorreva ogni giorno quei 22 chilometri che lo separavano dalla scuola per i ragazzi "di colore", la norma per il Mississippi degli anni '30.
Poi arrivò la guerra.
Medgar non ci pensò un attimo e partì per l'Europa, dove combatté fino al 1945, quando venne congedato con il grado di sergente. Tornato negli USA si rese presto conto che c'era una nuova guerra da combattere: quella contro il razzismo e la segregazione.
Un impegno che portò avanti fino al 12 giugno del 1963.
Era stata una giornata intensa per Medgar Evers. L'attivismo nella NAACP (l'associazione per i diritti civili degli afroamericani), d'altro canto, occupava sempre più tempo nella sua vita. Recentemente Medgar stava tentando di indagare sulla morte di Emmet Till, il ragazzino di quattordici anni barbaramente ucciso nove anni prima per aver rivolto la parola ad una donna bianca.
Fare l'attivista per i diritti degli afroamericani negli Stati Uniti era ancora un mestiere pericoloso, ma Medgar era ottimista. "Il vento sta cambiando".
Era una bella serata, almeno fino al momento in cui un colpo di fucile raggiunse Medgar alle spalle. Morì un'ora dopo.
Eppure non bastarono i due anni di guerra e l'impegno civile a garantire a Medgar il rispetto del suo paese e soprattutto del suo stato, il Mississippi. Venne immediatamente accusato dell'omicidio un simpatizzante del Ku Klux Klan, Byron De La Beckwith, che, in segno di solidarietà, ricevette la visita di un colonnello dell'esercito e del governatore del Mississippi. Non c'è da stupirsi, dunque, che la giuria (formata esclusivamente da bianchi) giudicò innocente Byron, che ai raduni del Klan si vantava di aver sparato a "quel neg*o". Ci vorrà un nuovo processo (con una giuria "mista") ben 30 anni più tardi, nel 1994, per giungere alla condanna di Byron, che morirà in carcere nel 2001.

Questa è una delle storie che raccontiamo nel secondo volume di Cronache Ribelli.
Lo trovate qui: https://bit.ly/3s1JtNE
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2022-02-23 22:37:47
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