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MARCO LOKAR ERA UNA PROMESSA DEL BASKET NEGLI STATI UNITI. FU | Cronache Ribelli

MARCO LOKAR ERA UNA PROMESSA DEL BASKET NEGLI STATI UNITI. FU COSTRETTO A TORNARE IN ITALIA IN SEGUITO A NUMEROSE MINACCE SEGUITE AL SUO RIFIUTO DI GIOCARE CON LA BANDIERA USA SULLA MAGLIA DURANTE LA GUERRA DEL GOLFO

Era forte, Marco Lokar. Non era altissimo, almeno per gli standard del basket: 1 metro e 87. Ma aveva talento da vendere, e lo stava dimostrando su entrambe le sponde dell’Atlantico. Nato a Trieste da padre sloveno, iniziò a farsi notare nello Jadran, dopo un anno passato da giovanissimo negli USA. Nel 1990 decise di ripetere l’esperienza e si trasferì nel New Jersey, giocando per la squadra del college locale, i Seton Hall Pirates, e al contempo studiando marketing. Sul campo si guadagnò ben presto il posto da titolare: in una gara contro Pittsburgh arriverà a segnare ben 41 punti.
Era forte, Marco, sul campo ma anche fuori. Sarà perché ha vissuto a Trieste da mezzo sloveno. Sarà perché ha ideali forti ed è coerente con i suoi principi. Quando si ritroverà di fronte la possibilità di una carriera brillante da pagare, però, con il tradimento di quei principi, non esiterà un istante per prendere la sua decisione.
La sua storia si intreccerà infatti con la storia di quegli anni. È il 1990, e l’Iraq, fino a pochi mesi prima foraggiato da USA ed Europa in funzione anti-iraniana, è il nuovo nemico pubblico. L’invasione del Kuwait è seguita in pochi mesi dall’intervento di una coalizione a guida statunitense. E come spesso accade nella guerra moderna, il fronte interno è importante almeno come quello dei campi di battaglia. Anche il mondo dello sport deve fare la sua parte: tutti gli atleti che giocano negli USA devono giocare con una bandiera a stelle strisce sulla maglia.
Anche Marco, che è italiano. Anche Marco, che non sopporta quella ipocrisia.
E allora dice no. Anzi, per l’esattezza afferma che accetterebbe "di mettersi addosso la bandiera USA solo insieme alle altre 28 della coalizione… e anche quella irachena”.
Apriti cielo.
Perderà quasi subito il posto da titolare nel quintetto. Durante una partita al Madison Square Garden, a New York, Marco viene sommerso dai fischi nonostante non sia neanche in campo. Ma il peggio deve ancora venire: aveva iniziato a ricevere minacce telefoniche da parte di reduci di guerra e persone comuni. Minacce rivolte anche alla sua compagna, al tempo incinta. Nessuno gli chiese di spiegare il suo gesto, nessuno gli concesse un’opinione differente. Solo fischi, odio e minacce. Allora prende la decisione più difficile: nonostante la sua borsa di studio duri ancora per altri 4 anni, Marco decide di rientrare in Italia, dove continuerà a giocare a basket per diversi anni.
Rientrò senza la carriera nell’NBA da lui sognata, ma con la dignità di chi non era disposto - da straniero - ad assorbire passivamente la retorica nazionalista e guerrafondaia del paese ospitante.