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Beckett inerte e forsennato Ivan Tassi Alias Domenica ~ Il | #VentagliDiParole

Beckett inerte e forsennato
Ivan Tassi
Alias Domenica ~ Il Manifesto
27.06.2021

#DiVisteERiviste

Carteggi. Tra i «rantoli» del discorso epistolare, si profila l’immagine di un letterato che ha superato la sua antica aspirazione a essere un «cerchio perfetto»: «Lettere 1941-1956», Adelphi

«Non faccio niente. Ogni tanto provo a cominciare, ma non approdo a nulla». Su queste parole avevamo lasciato Samuel Beckett, al termine del primo volume delle sue Lettere: 1929-1940 (Adelphi, 2017), fra attacchi di panico, crisi di impotenza ed esacerbate rivendicazioni di accidia. Lo ritroviamo in preda alle stesse insofferenze qualche anno dopo, mentre consuma una tranquilla e misera «similvita» ai «margini», all’inizio del secondo tomo delle Lettere 1941-1956 che esce in questi giorni presso Adelphi (traduzione di Leonardo Marcello Pignataro, a cura di Franca Cavagnoli, pp. CIV-517, € 55,00). Fin dai primi messaggi Beckett torna a ribadire all’amico MacGreevy he «le cose vanno malissimo, di un male che non porterà da nessuna parte»: e tuttavia la corrispondenza dello scrittore, negli anni che seguono, non si limita a replicare le «lagne» di un tempo, ma ci offre l’opportunità di assistere a una rivoluzione che si compie tanto al di fuori dell’io quanto all’interno del suo discorso epistolare.

L’ultimo dei debosciati
Da un capo all’altro di queste lettere, Beckett insiste nel presentarsi come «l’ultimo dei debosciati»: è sempre più provato, apatico e «instupidito», bravo solo «a immusonirsi» e a ricadere «nel silenzio». Anche se poi le dichiarazioni di inerzia letteraria si modulano sui toni di un nuovo registro, che invece di seppellire i destinatari sotto le dotte «geremiadi» di citazioni e «sanie verbali» della precedente stagione si orienta – come ha notato Dan Gunn – verso una direzione più «informativa».
Tranne che nelle rapsodiche elucubrazioni sull’arte inviate a Georges Duthuit, in cui Beckett si definisce «anima gemella» del pittore Bram van Velde, sono meno frequenti i casi in cui il mittente parla «a budella aperte», per poi doversi scusare di volgari incursioni nella propria «autobiografia». Più spesso, accanto alle lamentele sul disgusto e sulla «paura del fare», trovano posto annotazioni sulla natura formulate da un Beckett «eremita», che nell’universo «astratto» della campagna di Ussy-sur-Marne sembra scoprire una «tana» e una «buca» dove potersi sotterrare, al riparo dalle nevrosi della letteratura.
Sul versante creativo, nonostante gli incalzanti annunci di «paralisi», le lettere testimoniano per l’appunto le fatiche di un febbrile tour de force. Dopo aver abbandonato il suo «bizzarro» inglese a vantaggio del francese, «lingua dell’infinitesimale», nel giro di pochi anni Beckett riesce a completare una trilogia di romanzi che lo riduce «a malpartito» (Molloy, Malone muore, L’innominabile), per poi sottoporsi al «tormento» della forma breve nei Testi per nulla e dedicarsi, in parallelo, allo «spazio» del teatro, per lui più «definito» e «rilassante» rispetto alla «terribile prosa» delle narrazioni. Ed è in particolare nel 1953, con la prima rappresentazione di Aspettando Godot al Théâtre de Babylone di Parigi, che la situazione si ribalta una volta per tutte. Da qui in avanti, come ha avvertito James Knowlson, il romanziere esce dal suo «anonimato» per trasformarsi in un drammaturgo ricercato, discusso e costretto a fare i conti con le difficoltà di messa in scena dei suoi testi, ma soprattutto con la pubblicità e con le interviste, esecrabile «esercizio» dei giornalisti – dirà nel 1973 Nabokov – che non si accontentano di «dare la caccia al mandarino», ma vogliono anche «andarlo a trovare».

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https://ilmanifesto.it/beckett-inerte-e-forsennato/