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La solidarietà è un reato, ancora una volta. Nell’ottobre del | Ex Caserma Liberata

La solidarietà è un reato, ancora una volta.
Nell’ottobre del 2019 la Turchia dava inizio ad un’aggressione militare ai danni delle popolazioni
del Rojava, servendosi di bande di jihadisti finanziate ed addestrate dallo stesso governo turco per
mettere fine all’esperienza di autogoverno in atto da anni in tutta la Siria del Nord Est. Questa realtà
era resa possibile grazie ad un modello sociale basato sull’emancipazione delle donne e dei giovani,
il rispetto e la coesistenza pacifica di diversi gruppi etnici e religiosi e l’autodifesa. Durante questa
invasione (in territorio siriano secondo il diritto internazionale) furono assediate ed occupate le città
di Gire Spi e Sere Kanye e tutti i villaggi situati nella fascia di terra che le collega. Questa invasione
si celebrava con il benestare della coalizione internazionale, la stessa che negli anni precedenti si
era servita delle forze di autodifesa, inquadrate nelle Unità di Difesa del Popolo ed Unità di difesa
delle Donne kurde (YPG e YPJ) e delle SDF, per combattere le stesse frange jihadiste responsabili
di questa nuova aggressione guidate da un paese NATO.
Villaggi, strutture civili, ospedali sono stati bombardati per giorni dall’aviazione turca. Una scena
già vista un anno prima, quando nel corso dell’operazione militare “ramoscello di ulivo” la Turchia
invadeva il cantone kurdo di Afrin con le stesse modalità causando la morte di migliaia di civili
nell’indifferenza di Russia e coalizione internazionale. Mentre le bombe turche massacravano civili
inermi le bande jihadiste compivano ogni genere di violenza in diretta mondiale, come la barbara
uccisione di Hevrin Khalaf.
Di fronte all’ennesima aggressione militare turca ed al silenzio delle “democrazie” occidentali,
migliaia sono state le iniziative in tutto il mondo ed anche in Italia. In particolare nelle nostre piazze
si denunciava l’uso di armi italiane nel massacro di civili da parte della Turchia, durante l’assedio di
Afrin del 2018 il nostro governo riceveva il presidente Erdogan con tutti gli onori e con lui
stringeva accordi commerciali, molti dei quali nel comparto militare. Senza dimenticare i milioni di
euro regalati alla Turchia, di fatto, per bloccare i migranti diretti in Europa la quale li ha poi
utilizzati per armare frange jihadiste e combattere l’unica esperienza di democrazia diretta in un
territorio dilaniato da un decennio di guerra civile.
Anche a Bari il 12 ottobre del 2019 scendevamo in piazza per denunciare la connivenza delle nostre
istituzioni con il dittatore Erdogan e con un’idea di società basata sull’oppressione di genere e su
base etnica. In quella mobilitazione fu scelto come obiettivo simbolico, per denunciare queste
contraddizioni, un consolato turco con sede a Bari e fu reso evidente come emissari del governo
turco avessero le mani sporche di sangue.
Per quella giornata di lotta, oggi, a 4 compagn* è stato notificato un decreto penale di
condanna. Il messaggio è chiaro, un po’ di vernice rossa lavabile è più grave che
armare la mano di dittatori genocidi.
Ciò che intendiamo porre alla luce dell’opinione pubblica, oggi, non vuole scadere in una qualche
forma di vittimismo militante ma interrogarci sulla direzione (già intrapresa) dalle istituzioni e dal
loro apparato repressivo. Qualcuno reputa inaccettabile che durante un massacro immotivato
qualcuno scenda in piazza per dire “non in mio nome”. Al momento gli unici a pagare per quei mesi
di guerra ed uccisioni sono coloro che hanno espresso solidarietà. La criminalizzazione della
solidarietà non può passare inosservata ed essere normalizzata. Aggiungiamo (e non lo diciamo
perché questo dovrebbe dare legittimità alle nostre azioni, la legittimità ce la da la consapevolezza
di aver fatto la cosa giusta) che in quelle giornate anche diverse istituzioni locali hanno espresso una