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A dispetto dell’apparente normalizzazione dei rapporti con Mos | Maurizio Vezzosi

A dispetto dell’apparente normalizzazione dei rapporti con Mosca, legittimata peraltro dalla cornice atlantica, Ankara non fa mistero del proprio sostegno, anche militare, all’Ucraina di Poroshenko. Non a caso è stata segnalata la presenza di istruttori militari e di reparti speciali dell’esercito turco nella regione di Kherson e nella cosiddetta “Zona Ato”: in questo senso, non è peregrino interrogarsi sul nesso dell’intesa di questa con Kiev e sulla presenza di jihadisti in territorio ucraino.

La Turchia, oltre a cercare di consolidare il proprio status di potenza regionale, nell’intesa con l’Ucraina cerca anche di controbilanciare il rinnovato sostegno diplomatico, politico e militare che la Russia offre ai curdi del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), disponendo così di una leva da utilizzare in chiave antiturca, utile a stemperare le frizioni tra le minoranze curde e il governo siriano, soprattutto di fronte al nemico comune dell’Is.

Nonostante le mire turche abbiano subito un deciso ridimensionamento dopo l’intervento russo in Georgia, non è possibile leggere fuori da questo quadro il decongelamento del conflitto tra l’Azerbaijan e l’Armenia – rispettivamente alleate di Ankara e Mosca – per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh.

Nello scontro con Mosca riapertosi dopo il collasso dell’Urss, la Turchia ha sostenuto con il benestare Usa la destabilizzazione del Caucaso russo e non, avallando – principalmente tramite la “leva cecena” – quello che forse è stato il primo progetto di un Califfato dopo le vicende afghane.

È verosimile con l’attentato di Istanbul la Turchia abbia pagato la necessità, sopratutto economica, di ammorbidire il proprio atteggiamento verso Mosca. A dar credito a quest’ipotesi c’è il fatto che i tre kamikaze dell’aeroporto provenissero da Uzbekistan, Kirghizistan e Cecenia, regione di origine anche di Akhmed Chatayev, la presunta mente dell’attentato. I jihadisti del mondo ex sovietico – e probabilmente anche gli Stati del Golfo – sembrano non aver la minima intenzione di accettare un ipotetico stemperamento dell’aggressività turca verso la Russia.
Nel Caucaso e in Ucraina, così come nei Balcani, in Siria e in Asia centrale, l’agitazione dell’elemento etnico, nazionale e religioso risulta di frequente alla base della politica estera di Ankara, che giustifica il proprio ruolo con la presenza delle minoranze turche.

In Crimea e Ucraina, la “leva tatara” e la politica etnica più in generale sono un cardine della strategia della Turchia, strategia dalla quale il governo ucraino è evidentemente convinto di poter trarre beneficio. In questo senso, prendendo a pretesto il conflitto in Donbas, il governo turco ha
gestito lo spostamento di ben trecento famiglie di turchi residenti nella provincia di Kharkov nelle zone del sudest della Turchia cercando di compensare, seppur in scala, la schiacciante maggioranza curda della zona.

Oggi in Crimea i tatari sono 280 mila, circa il 12% dell’intera popolazione della penisola. A Kherson e nella regione a ridosso dell’omonimo stretto, i dati dell’ultimo censimento ucraino del 2001 riportano la presenza complessiva di nazionalità turca per circa l’1% dell’intera popolazione della regione, che supera abbondantemente il milione. Il concorso musicale Eurovision, vinto tra non poche polemiche dalla cantante ucraina di origine tatara Jamala, ha riportato le vicende dei tatari di Crimea alla ribalta delle cronache. La canzone 1944 racconta del trasferimento nelle zone dell’Asia centrale di migliaia di tatari di Crimea a seguito del loro sostegno offerto al Reich durante l’Operazione Barbarossa e del loro inquadramento nelle formazioni militari naziste.

Le sensibili differenze tra le minoranze turche di Ucraina e di Russia – ad esempio, tatari di Crimea, tatari del Volga, tatari degli Urali, turchi meskheti e molti altri – possono risultare relative rispetto al “minimo comune denominatore” della base linguistica e dell’identità panturca, uno dei grimaldelli della geopolitica di Ankara.