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UNA FIAMMATA NELLA NOTTE E POI QUELL'URLO: 'NON VOGLIO MORIRE' | Ex Caserma Liberata

UNA FIAMMATA NELLA NOTTE E POI QUELL'URLO: "NON VOGLIO MORIRE". UN RICORDO DEGLI OPERAI DELLA THYSSENKRUPP BRUCIATI VIVI A TORINO 13 ANNI FA

Morirono lentamente. Tutti. Gli operai come la fabbrica.
La Thyssenkrupp di Torino era uno stabilimento sul viale del tramonto. Negli anni la produzione era scesa costantemente. Erano rimasti 200 dipendenti nel dicembre 2007, erano il doppio solo due mesi prima. L'impianto avrebbe cessato di funzionare nel giugno dell'anno successivo. Lo farà con 6 mesi di anticipo. Lo farà portando via con sé le vite di 7 operai. Rocco, Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rosario, Giuseppe. Vite che si spegneranno, lentamente, da poche ore ad alcune settimane dopo l'incidente. Non aveva lasciato scampo quella fiammata fortissima, resa implacabile dalle perdite d'olio e dalla pressione che travolse gli operai che lavoravano alla linea 5.
Era il turno notturno allo stabilimento in quella notte tra il 5 ed il 6 dicembre 2007. Perché sebbene l'impianto stesse chiudendo, di lavoro ve ne era, e anche parecchio, tant'è che alcuni di loro stavano affrontando turni massacranti. Diventeranno vittime di una tragedia del lavoro come poche altre.
Tragedia.
Può essere chiamata così anche quando i sistemi di sicurezza non funzionano? Quando gli estintori sono scarichi? Quando si vieta di interrompere la produzione in caso di piccoli incidenti per non rovinare l'acciaio in lavorazione? Si sa, la linea 5 chiuderà a breve, manutenzionare gli estintori e tutti gli altri dispositivi di sicurezza sarebbe una spesa poco oculata. Il benessere degli operai è una voce che non conta nella contabilità aziendale. Ciò nonostante la proprietà nega la propria responsabilità, parla di errore degli operai, poi di fatalità. "Se gli estintori avessero funzionato non sarebbe successo nulla" dirà l'unico superstite dell'incidente, Antonio Boccuzzi.
Altrettanto poco gradite saranno le lamentele delle famiglie di quegli operai, bruciati vivi e morti tra sofferenze indicibili. L'AD della Thyssen, Espenhahn, non era felice del rapporto che fece al riguardo l'operaio Boccuzzi. Raccontava quegli attimi di terrore, raccontava la sofferenza dei suoi colleghi, quell'urlo "Non voglio morire" che riecheggiò durante una delle tante telefonate effettuate quella notte. L'AD pensò di procedere con azioni legali contro l'operaio.
Nel frattempo, in questi 13 anni si sono susseguiti i processi a carico degli imputati, dai responsabili della sicurezza e dello stabilimento fino ai vertici della Thyssenkrupp, a partire dallo stesso Espenhahn. Processi che termineranno con la condanna di tutti i colpevoli a pene dai nove ai tre anni.
I dirigenti tedeschi dell'azienda, però, non hanno ancora scontato un solo giorno di carcere, essendo residenti in Germania, protetti dalle leggi sull'estradizione, dalla burocrazia e da un sistema che protegge e garantisce il profitto di pochi a scapito della salute e della vita stessa degli operai.