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Lo preciso a beneficio di chi, frettolosamente, non si accorge | Stefano Montanari

Lo preciso a beneficio di chi, frettolosamente, non si accorgesse che il raccontino che segue è solo uno di quelli che un tale Giuseppe Giusti avrebbe chiamato scherzucci di dozzina.
La realtà in cui viviamo è – sia ringraziato il Cielo – il migliore dei mondi possibili, come avrebbe detto più di tre secoli fa un tale Gottfried Wilhelm von Leibniz.
Insomma, si tratta solo di una pinzillacchera di un maldestro scrittore dilettante che chiede preventivamente perdono.
 
Ne avevano parlato tutti i giornali, almeno quelli diffusi nel raggio di una cinquantina di chilometri: i medici del policlinico e il personale tutto, con particolare riguardo al presidente (che aveva rilasciato un’intervista in cui ammetteva modestamente che il merito era tutto suo), avevano fatto il miracolo. Anzi, no: avevano applicato la vera scienza. Insomma, il signor P.P. di anni 77 si era risvegliato da uno stato di coma durato dieci anni. La notizia veniva divulgata solo ora, quando della riuscita si era ragionevolmente sicuri, visto che P.P. se n’era tornato a casa sulle sue gambe.
Così, Palmiro (P.P. era lui), ritrovata casa sua, si era avvolto nella vecchia bandiera dell’URSS e, a passi petrarchescamente tardi e lenti, aveva trascinato l’altrettanto petrarchesco antico fianco fino all’entrata della cellula Yuri Gagarin.
Con sua sorpresa vide, appesa a una finestra, la bandiera degli Stati Uniti al cui fianco pendeva un’altra bandiera che pareva quella gialloblù dei tifosi del Modena.
“Non avranno traslocato?” Pensò. Così, prima di premere il campanello, s’infilò gli occhiali. “Centro Pace e Salute” era ciò che stava scritto.
Suonò lo stesso. Ad aprirgli fu un tale che lo squadrò per un attimo. Poi, dopo essersi guardato furtivamente intorno, “Palmiro!” esclamò.
Era Nikita. Magari un po’ invecchiato, ma era lui, anche se una maschera di carta su naso e bocca lo rendeva strano.
“La...” sussurrò.
Palmiro aggrottò le ciglia. Non capiva. “La cosa?” domandò.
“La... la bandiera.”
“La nostra bandiera: quella sovietica!”  E cominciò ad intonare, ovviamente senza parole, l’inno della vecchia URSS.
“No... Non... Insomma, è meglio che tu...”
“Che io?”
“Dammela qua.”
Sempre senza capire, Palmiro si tolse la bandiera rossa con la vecchia falce e il vecchio martello, e la porse al suo vecchio amico.
“Mettiti questa!” disse Nikita cavandosi di tasca un bavaglio uguale al suo.
“Nikita... Nikita, spiegami...”
“Zitto! Adesso sono Sheva.”
“Sheva? Ma che cosa..?”
“Sheva è Shevcenko. Shevcenko: il vecchio calciatore, quello del Milan. Non me n’erano venuti in mente altri di ucraini. Io neanche sapevo dove sta l’Ucraina. Lui è ucraino, mi hanno detto. Così...”
“Ucraino? Ma chi se ne...!”
“Zitto! Mettiti la mascherina e vieni in bagno!”
I due si chiusero al gabinetto. L’odore era lo stesso di un tempo, ma il resto... Avevano attraversato la saletta che ancora puzzava nostalgicamente di fumo freddo, quella saletta in cui un tempo si giocava a briscola maledicendo a gara gli americani, colpevoli di tutti i mali del mondo. Quella in cui, davanti al televisore in bianco e nero, si tifava URSS quando la nazionale giocava contro l’Italia. Lì il vecchio grammofono, quello su cui almeno venti volte al giorno risuonava il disco di Volga Volga e Kalinka (lato B), quello regalato dal coro di Vladivostok con dedica in mai tradotto cirillico sulla busta, diventato musicalmente misterioso, gracchiante e sfrigolante come si era ridotto a furia di repliche, se ne stava in silenzio. Aveva lasciato il posto a un computer che diffondeva le canzoni del Far West. Nel corridoio non c’erano più le foto con i ritratti di Lenin (Stalin era sulla faccia posteriore del quadro che veniva girato solo per i fedelissimi), di Gagarin, di Breznev, del gruppo che nel ’63 era stato in gita a Mosca ed appariva trionfante con lo sfondo del Cremlino dove, per tutti e due i giorni della visita, aveva ascoltato rispettosamente in piedi discorsi in russo, incomprensibili ma emozionanti, e da raccontare a chi era restato a casa. C’era, invece, una foto di scena con un tale che rideva davanti a un pianoforte.