2021-09-28 20:08:29
L’idea che l’allevamento estensivo sia più “umano” rispetto a quello intensivo va per la maggiore ma ha davvero poco fondamento. Vediamo perchè.Non è una novità che chi voglia consumare cibo animale si ponga a volte il problema del tipo di allevamento, come se il metodo facesse una differenza sostanziale per l’animale, rendendo quindi il cibo più o meno “etico.”
Invece le differenze non sono assolutamente sostanziali e anzi, forse la tecnica cosiddetta estensiva e quindi in teoria più rispettosa dell’etogramma dell’animale, può creare negli allevatori e negli operatori coinvolti un atteggiamento specista molto più radicato che negli imprenditori di zootecnia intensiva.
La principale differenzaL’aspetto che maggiormente imprime nel consumatore l’idea che l’allevamento “della porta accanto” sia più eticamente sostenibile, viene dal fatto che prima di essere macellati gli animali generalmente vivono una parte del tempo, fuori da gabbie e capannoni, il che suggerisce una maggiore tutela del benessere animale. Molte associazioni di caratura nazionale e internazionale infatti concentrano i loro sforzi nel combattere e denunciare la crudeltà solo negli allevamenti cosiddetti intensivi, dove vige il principio aziendale della massimizzazione del profitto, che si ottiene aumentando i ricavi, quindi allevando centinaia di capi di bestiame, e diminuendo i costi, riducendo gli spazi occupati e automatizzando il più possibile le operazioni di produzione.
Questo comporta sovraffollamento e gabbie per gli animali allevati, stipati in piccoli spazi, privati così del loro diritto di esperire il loro repertorio comportamentale, trattati già come prodotti pur essendo ancora in vita.
L’allevamento estensivo invece permette all’animale di vivere in condizioni un po’ meno lontano dal suo etogramma e questo basta a molti per continuare a consumare carne, latticini e uova, cancellando ogni traccia di senso di colpa. Alcune aziende stanno cavalcando la tendenza, come sempre accade nel meccanismo economico, proponendo allevamenti di polli “allevati all’aperto”, come Amadori, o mucche con l’idromassaggio nelle pubblicità dei formaggi Soresina. Indubbiamente ottime idee per vendere di più e aumentare i ricavi.
Ma veramente possiamo credere che sia una vita accettabile per un essere vivente ?
Lo specismo dietro all’allevamento estensivoIn realtà per alcuni aspetti l’allevamento estensivo è peggiore di quello intensivo. Anni fa lavoravo all’Istituto Agrario di Siena, la mia città, e ricordo ancora il periodo in cui con la terza classe di enologia andavamo in azienda a raccogliere le olive. Io mi confondevo con gli studenti raccogliendo con loro e potendo ascoltare le discussioni. Ricordo che nella pausa, davanti a una grigliata di salsicce alla brace, uno di loro parlava di come ammazzava il maiale nell’azienda di famiglia. Ne descriveva l’accerchiamento, le urla dell’animale terrorizzato e lo sgozzamento, con il sangue che ne derivava, come se parlasse di bere un drink all’aperitivo. Come raccontasse un’avventura magnifica che faceva di lui un uomo. Lo specismo era talmente radicato in un giovane ragazzo cresciuto in mezzo alle uccisioni cruente degli animali da non fargli minimamente provare a mettersi nei panni di quegli animali che urlavano terrorizzati. Lui non sentiva niente per loro, anzi ne parlava come di esseri ridicoli, solo dei maiali, che di fronte alla violenza sono così poco “maschi” da gridare come “femminucce”. Questo atteggiamento è presente in tutti i piccoli allevamenti “da allegra fattoria”.
Un altro mio incontro è stato con una piccola produttrice di formaggio di capra, una donna molto dinamica e interessata all’antroposofia di Rudolph Steiner. La signora mi disse con serafica soddisfazione che il capretto lo uccideva lei con le sue stesse mani, essendo necessario anche negli allevamenti estensivi sopprimere il cucciolo per produrre formaggio. Come se si trattasse di ordinaria amministrazione.
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