2022-07-13 10:45:13
Di seguito la riflessione personale di una dei membri del collettivo che sentiamo di fare nostra:
Dopo i cinque gol presi all'esordio nel solo primo tempo dalla Francia - che si è fermata nel secondo - sull'Italia femminile di calcio è piovuto ogni genere di critica, alcune nel merito, poche in verità, tante altre invece che sanno di livore e di rivalsa.
Tralasciando le prime, mi hanno colpito parecchio le altre. Non che non me lo aspettassi. Nel mio strapiccolo sono continuamente perculato per il semplice fatto che seguo e che mi appassiona il calcio giocato dalle donne, cosa disdicevole agli occhi di parecchi e immaginavo che tantissimi aspettassero al varco un passo falso della Nazionale per dare fiato alle solite vecchissime trombe. E infatti, ogni risaputa litania sull'inadeguatezza e sull'incapacità, ogni tirata al limite dell'eugenetica sull'impossibiltà per le donne di poter giocare dignitosamente a calcio è ripartita. Ma questa volta risalta in modo evidente anche un'altra cosa, un elemento nuovo, il senso di liberazione che molti provano, identico a quello dei fautori del "non si può più dire niente", rispetto alla narrazione drogata che si è via via fatta più insistente di questo cavolo di calcio femminile e specialmente della Nazionale.
È cominciato tutto con la mancata qualificazione degli uomini ai mondiali in Russia del 2018, visto di lì a poco le donne si guadagnavano invece quella ai mondiali dell'anno successivo in Francia. Da lì è partita una contrapposizione insensata, tipicissima dell'informazione all'italiana, che ha a suo modo accompagnato una fase delicata di trasformazione del calcio femminile in Italia. E mentre le calciatrici non solo si qualificavano a un mondiale da cui mancavamo da tantissimo ma riuscivano anche ad arrivare ai quarti di finale, sorpresa assoluta dell'edizione, i media nostrani rinforzavano un racconto retorico e zuccheroso ai limiti del diabete attorno al calcio femminile. Racconto che a lungo andare è diventato respingente. Non un'inchiesta seria sull'avvicinamento al professionismo - scattato dieci giorni fa - non un approfondimento accurato sull'ingresso delle società professionistiche maschili in un mondo del tutto diverso e totalmente carente di "infrastrutture" - intendendo con questo termine non perfettamente centrato sia gli impianti ma anche quel tessuto umano di figure dirigenziali adeguate alla delicatezza del periodo. Ora il professionismo c'è, con tutte quelle sacrosante tutele legali, sanitarie, assicurative che le atlete reclamavano da tempo ma dietro?
Nel 2019 arrivavamo tra le prime otto squadre del pianeta, unica federazione di atlete dilettanti arrivata fin lì. Però più ancora che a questo bisogna pensare che eravamo anche l'unica federazione tra le otto ai quarti di finale con un numero di praticanti inferiore a 100.000, e non di poco, sfioravamo le ventimila tesserate.
Avevamo una generazione di giocatrici molto sovradimensionata rispetto a quanto strutturalmente saremmo stati in grado di tirar fuori. Non a caso dopo tre anni sono ancora tutte lì, con pochissimi innesti, il ricambio generazionale non c'è con un bacino che è cresciuto fino a 30.000 unità e non è in grado di confrontarsi con i Paesi che al calcio femminile hanno dedicato piani di sviluppo organici da parecchio tempo. Avete visto la Francia, terza nel ranking mondiale, ieri sera. Atlete più performanti, una tecnica individuale nella media imparagonabile, schemi di gioco chiari e ben eseguiti, una velocità di esecuzione assolutamente "altra" rispetto alle nostre migliori calciatrici. Pochissime tra le giocatrici in campo erano presenti al mondiale di tre anni fa.
Si vabbè ma dove voglio andare a parare?
Voglio arrivare a dire una cosa semplice, che queste ragazze non meritano il livore che per reazione molti hanno nei loro confronti, frutto anche di una contrapposizione col calcio maschile introdotta dai media ma mai cercata da loro.
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