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Thomas Hobbes e il patto di reciprocità Secondo Hobbes, lo St | Mondo filosofia

Thomas Hobbes e il patto di reciprocità

Secondo Hobbes, lo Stato nasce dall’accordo degli individui a sottomettersi a un potere superiore che reprima l’anarchia e la lotta incondizionata delle fazioni armate le une contro le altre. L’epoca di Hobbes era funestata da fazioni interne in lotta e da una spietata guerra di religione. A questo tragico stato di cose egli oppose l’idea dello Stato moderno, come Stato non partigiano e non confessionale, che si assume la delega del potere da parte degli individui e delle fazioni in vista di un ordine superiore. Questa delega di potere avviene grazie ad uno scambio di favori: gli individui e le fazioni cedono allo Stato le potenzialità distruttive intrinseche alla loro libertà; in cambio lo Stato fornisce loro sicurezza fisica e morale. Pertanto, lo Stato funziona ed è legittimato solo nella misura in cui ciascuno si sente al sicuro e non avverte minaccia né condizionamento.
Lo Stato può essere contestato e persino negato qualora non rispetti il patto stretto col cittadino di proteggerlo da agenti esterni e interni che minaccino l’equilibrio fra le parti. Dal momento in cui Hobbes scolpisce la sua visione, ogni cittadino che si riconosca nello Stato moderno dispone solo di una libertà relativa: ha il dovere di rispettare il patto di reciprocità che lo lega allo Stato. Se si appella al “diritto” (individuale) e alla “verità” (per esempio religiosa), contro le leggi dello Stato, egli deve sapere che sta lavorando in funzione di una guerra e deve assumersene per intero la responsabilità. Alla fine, il cittadino o la fazione che avanzano un diritto o pretendono di imporre una verità potrebbero anche risultare vincenti, ma ciò accadrebbe sulla base di una guerra guerreggiata contro lo Stato, non in virtù della rivelazione di un diritto naturale riconosciuto. Non di meno, anche lo Stato dispone di una libertà relativa: esso deve soddisfare tutti i requisiti del patto cui si è sottomesso, primo fra i quali proteggere la vita e la prosperità dei cittadini, pena la perdita della legittimità.

Il cittadino è tenuto a plasmare la sua identità entro i confini dati dalle leggi dello Stato e ogni sua deroga, ogni sua trasgressione deve poter rientrare all’interno della cornice statuale, come contributo alla prosperità della vita collettiva. Allo stesso tempo lo Stato non può esercitare un potere assoluto, ma sempre e soltanto relativo, perché è a sua volta tenuto a rispettare il patto che lo obbliga a proteggere il cittadino da pericoli esterni ed interni. Esterni sono i pericoli che provengono da potenze straniere; interni sono i pericoli che provengono da minoranze o singole soggettività, le quali, con la violenza o dietro il paravento dei diritti, aspirano ad usurpare il potere totale.

Nella sua visione letteraria Hobbes si avvale della metafora del Leviatano, l’invincibile mostro marino che Jahvè, nella Bibbia ebraica e in quella cristiana, oppone a Giobbe allo scopo di dimostrargli quanto l’uomo sia piccolo di fronte alla più potente fra le creature.
Hobbes raffigurò lo Stato come un immenso uomo-macchina, un poderoso automa costituito dal numero totale dei suoi membri, ciascuno dei quali esercita, al suo interno, una sua specifica funzione. In un sistema politico concepito secondo queste regole, nessuno, perde la sua individualità, ma sceglie di metterla a servizio della poderosa macchina dello Stato allo scopo di trarne vantaggi. In questa concezione, mirata alla massima efficienza comunitaria, non c’è posto per l’utopismo del “diritto assoluto alla felicità individuale”, mito sorto nella Francia del Settecento, nemmeno per un misticismo gnostico pessimista e settario che dipinga lo Stato come un labirinto demoniaco. La concezione di Hobbes ha la funzione non solo di evitare le guerre ma anche le persecuzioni interne cui furono sottoposte per secoli le minoranze religiose.

FONTE: nicolaghezzani.altervista.org

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