2022-02-21 23:16:25
L’agronomo
Lester Brown fu il primo a parlare di
“rifugiati ambientali”, riferendosi alle persone costrette a migrare a causa dei mutamenti delle condizioni climatiche nei luoghi in cui vivevano.
Tra i Paesi più colpiti ci sono quelli del
Sud-Est asiatico con
Filippine e Bangladesh che hanno visto, solo nel 2017, quasi
3,5 milioni di persone abbandonare le proprie case e rifugiarsi in altre aree del Paese (o all’estero) a causa dei disastri ambientali.
In
Africa, è emblematico il dato della
Somalia, dove è in corso ormai da decenni una lunga e sanguinosa scia di violenze. Queste, nel 2017, hanno provocato
400 mila migrazioni, ma nello stesso anno i disastri ambientali hanno costretto quasi
900 mila somali a spostarsi.
Le nazioni con il più alto numero di migranti climatici sono
l’Afghanistan, l’India e il Pakistan. La quota di persone costrette a lasciare le proprie case pur rimanendo all’interno del proprio Paese è stata
due volte superiore rispetto a quella dei rifugiati accolti oltre confine.
È preoccupante che, per trovare soluzioni al fenomeno migratorio, molte nazioni stiano adottando
politiche nazionalistiche.
Dal 1990, gli Stati membri dell’Ue e dell’Area Schengen hanno eretto circa
1000 km di muri e alcune nazioni stanno modificando le proprie leggi in modo da bloccare l’accesso ai migranti. Il
governo britannico ha introdotto una misura che denuncia ed espelle chi prova ad entrare nel paese in modo illegale, e li trasferisce su isole semideserte. La
Polonia considera migranti “irregolari” chi non arriva direttamente da un Paese in cui la vita è a rischio e autorizza così gli agenti di frontiera a respingerli.
La migrazione è una strategia di adattamento naturale che accomuna tutti gli esseri viventi quando vengono a mancare le condizioni necessarie per la sopravvivenza. In un momento storico come questo, è estremamente miope pensare che se non apriamo i porti le persone cesseranno di migrare. Lasciare i Paesi più in difficoltà soli ad affrontare le conseguenze del cambiamento climatico di cui tutte le nazioni sono co-responsabili dimostra ancora una volta la
totale mancanza di una visione comune sulle problematiche che più la richiederebbero.
In collaborazione con Factanza
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